Il baco e la farfalla (capitolo 12)
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Il baco e la farfalla (capitolo 12)
Novembre 1955
Quando si era trattato di decidere se tornare a casa di mia zia o di mia madre, sorprendendo sia me stesso che Costanza, avevo scelto quest’ultima. Non saprei dire se ciò fosse stato determinato dalla rara e piacevole sensazione di vicinanza che avevo provato un anno e mezzo prima abbracciandola il giorno della partenza per le Alpi. A dire il vero, non si era trattato nemmeno di una decisione. Non mi ero posto alcuna domanda, non si erano materializzate di fronte a me le due opzioni. Ero semplicemente sceso dal treno e, immerso nei pensieri, avevo inserito il pilota automatico che mi aveva portato fino al portone della casa di mia madre.
Costanza era stata contenta di rivedermi e per festeggiare il mio ritorno aveva preparato una deliziosa torta al cioccolato, la mia preferita. Aveva ascoltato con attenzione il resoconto delle mie esperienze tra ovini e turisti danarosi, divertita dalla mia osservazione che alcuni comportamenti dei secondi fossero incredibilmente simili a quelli dei primi. Mi aveva chiesto una descrizione dettagliata di Federica e accorgendosi del rimpianto di cui erano cariche le mie parole, era giunta in mio soccorso con una verità tanto semplice quanto insufficiente a consolare un giovane cuore infranto. A me non bastava guardarmi intorno per rendermi conto che il mondo è pieno di ragazze belle come Federica. A me sembravano tutte molto più brutte.
Giovanna aveva da poco compiuto dodici anni. Rispetto a quando l’avevo vista l’ultima volta aveva abbandonato definitivamente l’età dell’innocenza, ma con piacere avevo avuto modo di constatare che la sua crescita non aveva intaccato il rapporto cordiale che si era instaurato fin da subito tra noi.
Incapace di restare con le mani in mano, mi ero dato immediatamente da fare per trovare un lavoro. Le opportunità scarseggiavano e fui costretto, mio malgrado, a ritornare a faticare come muratore.
Aprii gli occhi all’improvviso. Non riuscivo a smettere di tremare. Sentivo ancora il rimbombo dello sparo. Era stato tutto così reale. Dopo aver sparato a mio padre, l’uomo con l’impermeabile nero aveva puntato la pistola verso di me e aveva fatto fuoco. Era in quel momento che mi ero svegliato, appena un istante prima di morire. Mi sfilai a fatica il pigiama fradicio di sudore e lo gettai lontano sul pavimento. Riuscii in parte a liberarmi della paura, ma sentii violenta montare dentro la stessa ira già provata altre volte e mai del tutto sopita. Mi trascinai fino al bagno e mi osservai allo specchio. Sciacquai il volto madido e constatai definitivamente che si era trattato di un terribile incubo. Avevo diciassette anni. Erano passati sette anni dalla morte di mio padre. Mi domandai per quanto tempo ancora sarei stato preda di quella visione che, con la periodicità casuale di una catastrofe naturale, ritornava sempre con i medesimi effetti devastanti. Angustiato dall’impossibilità di incontrare una risposta, mi chiesi se non esistesse un modo per mettere fine ai miei incubi. Uno forse c’era, ma la sola idea mi terrorizzava.
Rinunciai a tornare a letto, fissare il soffitto non mi sarebbe stato di alcun conforto. Mi vestii con le prime cose che trovai a portata di mano e uscii accompagnando la porta per non fare rumore. Un brivido mi comunicò che era giunto l’inverno. Il paese riposava ancora, avviluppato nell’oscurità. Impossibile individuare la separazione tra mare e cielo, lo sguardo veniva risucchiato da un impenetrabile spazio nero. Avevo bisogno di centrifugare i miei pensieri, spararli il più lontano possibile. Avrei voluto dimenticare, ma più mi sforzavo di farlo, più ritornavano prepotenti le stesse immagini e i soliti suoni. Il frastuono dello sparo era assordante nel silenzio globale della notte. Riposi le mie speranze nell’alba, pensando che avrebbe spazzato via tutto. Il sole quel giorno sarebbe sorto un po’ più tardi. Per un attimo ebbi l’assurda tentazione di andargli incontro e mi incamminai verso est. Mi fermai dopo pochi passi, distratto da una decina di puntini luminosi in fila indiana in mezzo al mare che indicavano il ritorno delle lampare. Mi voltai e mi avviai in direzione del porticciolo, in attesa dei pescatori.
Quella sera ritornai a casa esausto. La notte insonne e la lunga giornata di lavoro avevano lasciato il segno. Non ero più il ragazzino di una volta, manlevato dai lavori più duri. Ogni tanto mi sembrava di udire le vertebre scricchiolare e lamentarsi sotto il peso dei sacchi di calce da trenta chili. Costanza non era in casa. Ritornava sempre più tardi quando Vincenzo era via. Giovanna si sarebbe fermata a cena dagli zii. Mi spogliai e sciacquai via la fatica, prima di avventarmi in cucina ancora gocciolante per placare il brontolio dello stomaco. Udii la porta aprirsi e richiudersi un istante dopo.
“Sei tu?” gridai senza muovermi dalla sedia.
Costanza apparve sulla porta della cucina.
“Ho portato delle acciughe. Se riesci a resistere una mezz’oretta ceniamo insieme”.
“Non direi mai di no a un piatto di acciughe” risposi entusiasta.
Posò la borsa di tela sul pianale in marmo del lavabo. Prese una terrina e vi rovesciò dentro una ventina di acciughe di media grandezza. Indossò un grembiule e iniziò a pulirle, rapida e decisa. Si notava che era del mestiere.
“Lascio la lisca che facciamo prima”.
Non erano le spine del pesce azzurro il problema. Da quando era entrata in cucina, il sorriso non l’aveva abbandonata un solo istante, trasudava serenità. Sospettavo l’origine del suo stato d’animo, derivava da un comportamento che non esitavo a condannare come squallido e disonorevole.
“Continui a vedere quell’uomo?” attaccai polemico.
Si volse accigliata.
“Quell’uomo ha un nome. Si chiama Giacomo. Ebbene sì, continuiamo a vederci e la cosa continua a non riguardarti” ribatté secca.
“Ma come fai a condurre due vite parallele? Non pensi a quello che può provare Vincenzo, a quello che la gente dice di te?”.
Lasciò cadere l’acciuga che aveva in mano e si asciugò le mani nel grembiule. Vidi la cena allontanarsi e mi pentii di aver aperto bocca. Troppo tardi. Si sedette di fronte a me, inspirò profondamente come chi si appresta a uno sforzo prolungato, mi fissò dritto negli occhi e iniziò a parlare, calma:
“Due parallele non si incontrano mai, scorrono una di fianco all’altro senza punti di contatto. Te l’hanno insegnato pure a scuola, no? La mia vita è una, una sola. Travagliata, complicata, bella, brutta, ma una. E trasparente. Giacomo sa di Vincenzo e Vincenzo sa di Giacomo. Non c’è niente che non sia in contatto con il resto. Niente di nascosto, tutto alla luce del sole. La gente mormora?... e chissenefrega! Bisogna vergognarsi quando si fa del male al prossimo, quando si mente, quando si ruba. Davvero dovrebbe importarmi di ciò che dice la gente? Davvero dovrei farmi turbare da chi mi addita come peccatrice? Quelle persone, Guido, mi fanno pena. Chi bada agli altri è perché non è in pace con sé stesso. I moralisti, nella maggior parte dei casi, non sono altro che degli ipocriti che si interessano agli altri per evitare di dover aprire gli occhi su loro stessi e giudicare i propri comportamenti. Pietro, tuo padre, non ha voluto sposarmi, Vincenzo non ha potuto, Giacomo vorrebbe e potrebbe ma rispetta la mia scelta di vivere insieme a Vincenzo. Mi hanno portato via un figlio, altri due sono morti appena nati, all’ultimo non avrei rinunciato per niente al mondo. Non c’è proprio nulla di cui mi debba vergognare. Non ti dico questo perché tu mi compatisca. Forse ti sembrerà strano, ma nonostante tutto mi considero fortunata. Ho incontrato persone che mi hanno voluto bene, ho soddisfatto il desiderio più grande, quello di essere madre, ho un lavoro che mi permette di far studiare i miei figli e di dar loro da mangiare. Il mondo è pieno, purtroppo, di persone che stanno peggio di noi. Vincenzo... cosa pensa Vincenzo? Prima di conoscermi si era già sposato con un’altra donna con la quale aveva avuto una bambina. Tardò sei mesi per dirmelo. La moglie e la figlia emigrarono in Cile sedici anni fa, insieme ad altri parenti, alla ricerca di una vita più dignitosa. Vincenzo disse loro che le avrebbe raggiunte qualche mese dopo, poi scoppiò la guerra e senza visto tedesco non si poteva più espatriare. Figurati, il visto a lui che si era sempre rifiutato di prendere la tessera del partito fascista! E così rimase qui e incontrò me. Lo sai che mi ha conquistata non invitandomi a ballare, lasciandomi seduta tutta la sera? Morire mi ha fatto. Per un po’ gliel’ho fatta pagare. Mi sono fatta inseguire qualche giorno, ma in realtà non vedevo l’ora che mi raggiungesse. Mi era piaciuto fin dal primo sguardo. Ci ha unito da subito una grande passione, una passione che non ci ha mai abbandonato. Un bel giorno, all’improvviso, se ne è andato senza dire nulla. Giovanna non aveva ancora compiuto quattro anni. In un anno le uniche notizie che ho avuto di lui sono state due righe scritte su una vecchia foto per ricordarci che non si era dimenticato di noi. Non me l’ha mai confessato, ma dentro di me ho sempre pensato che fosse andato a trovare la moglie in Cile. Pensava, sbagliandosi, che non lo avrei capito. È ritornato un anno dopo, inaspettatamente, deciso a giocare sporco: o accettavo di tornare insieme a lui, o avrei perso Giovanna. Ho accettato di tornare a vivere insieme a lui a patto di continuare a incontrare Giacomo. Incredibilmente disse che gli andava bene, che per lui non c’erano problemi. Non saprei dirti perché, forse per il senso di colpa per averci abbandonate, o più probabilmente cullandosi nell’illusione che la passione che c’era tra noi fosse sufficiente per ricominciare daccapo come se nulla fosse successo. Ma la passione non basta, Guido, l’amore travolgente senza il rispetto è effimero. È come un arcobaleno: meraviglioso e affascinante, ma destinato a svanire presto”.
Smise di parlare ma non distolse lo sguardo. Gli occhi lucidi, finalmente vuoti.
Deglutii frastornato. Restai a fissarla per un tempo indefinito, inchiodato alla sedia, incapace di infrangere il silenzio che si era impadronito della casa. Poi poco a poco, lentamente, sentii fluire densa e viscosa una sensazione nuova. Per la prima volta mia madre, per la quale avevo provato un odio lacerante e un profondo disprezzo, mi fece pena.
“Scusa, mi dispiace” proferii contrito.
“Non fa niente” mi rassicurò socchiudendo gli occhi. Si avviò al lavabo e riprese a pulire il pesce.
Quella sera mangiai le acciughe più buone della mia vita.
Se sul fronte di mia madre avevo l’impressione di aver compiuto dei passi decisivi verso una piena riconciliazione, lo stesso non si può dire stesse accadendo per quanto riguardava mio padre. Il recupero sulla scena della figura materna evidenziava inesorabilmente l’assenza di quella paterna. Un vuoto netto e doloroso che ritornava prepotente a scuotere i miei sogni. L’uomo con l’impermeabile nero aveva ripreso a sopraggiungere improvviso e inaspettato, con la forza devastatrice di un uragano, lasciando dietro di sé il solito panorama desolato di miseria e morte. Diventavo ostile e invidioso della felicità altrui. Geloso della mia sofferenza, non mi confidavo con nessuno. Incapace di reagire, concedevo al rancore di sfogare la sua furia cieca. Poi attendevo, inerme, che ritornasse l’ordine nel caleidoscopio dei miei pensieri e constatavo con un brivido che più che i tempi del perdono, stavano rapidamente maturando, meno nobili e più pericolosi, quelli della vendetta.
Costanza era stata contenta di rivedermi e per festeggiare il mio ritorno aveva preparato una deliziosa torta al cioccolato, la mia preferita. Aveva ascoltato con attenzione il resoconto delle mie esperienze tra ovini e turisti danarosi, divertita dalla mia osservazione che alcuni comportamenti dei secondi fossero incredibilmente simili a quelli dei primi. Mi aveva chiesto una descrizione dettagliata di Federica e accorgendosi del rimpianto di cui erano cariche le mie parole, era giunta in mio soccorso con una verità tanto semplice quanto insufficiente a consolare un giovane cuore infranto. A me non bastava guardarmi intorno per rendermi conto che il mondo è pieno di ragazze belle come Federica. A me sembravano tutte molto più brutte.
Giovanna aveva da poco compiuto dodici anni. Rispetto a quando l’avevo vista l’ultima volta aveva abbandonato definitivamente l’età dell’innocenza, ma con piacere avevo avuto modo di constatare che la sua crescita non aveva intaccato il rapporto cordiale che si era instaurato fin da subito tra noi.
Incapace di restare con le mani in mano, mi ero dato immediatamente da fare per trovare un lavoro. Le opportunità scarseggiavano e fui costretto, mio malgrado, a ritornare a faticare come muratore.
Aprii gli occhi all’improvviso. Non riuscivo a smettere di tremare. Sentivo ancora il rimbombo dello sparo. Era stato tutto così reale. Dopo aver sparato a mio padre, l’uomo con l’impermeabile nero aveva puntato la pistola verso di me e aveva fatto fuoco. Era in quel momento che mi ero svegliato, appena un istante prima di morire. Mi sfilai a fatica il pigiama fradicio di sudore e lo gettai lontano sul pavimento. Riuscii in parte a liberarmi della paura, ma sentii violenta montare dentro la stessa ira già provata altre volte e mai del tutto sopita. Mi trascinai fino al bagno e mi osservai allo specchio. Sciacquai il volto madido e constatai definitivamente che si era trattato di un terribile incubo. Avevo diciassette anni. Erano passati sette anni dalla morte di mio padre. Mi domandai per quanto tempo ancora sarei stato preda di quella visione che, con la periodicità casuale di una catastrofe naturale, ritornava sempre con i medesimi effetti devastanti. Angustiato dall’impossibilità di incontrare una risposta, mi chiesi se non esistesse un modo per mettere fine ai miei incubi. Uno forse c’era, ma la sola idea mi terrorizzava.
Rinunciai a tornare a letto, fissare il soffitto non mi sarebbe stato di alcun conforto. Mi vestii con le prime cose che trovai a portata di mano e uscii accompagnando la porta per non fare rumore. Un brivido mi comunicò che era giunto l’inverno. Il paese riposava ancora, avviluppato nell’oscurità. Impossibile individuare la separazione tra mare e cielo, lo sguardo veniva risucchiato da un impenetrabile spazio nero. Avevo bisogno di centrifugare i miei pensieri, spararli il più lontano possibile. Avrei voluto dimenticare, ma più mi sforzavo di farlo, più ritornavano prepotenti le stesse immagini e i soliti suoni. Il frastuono dello sparo era assordante nel silenzio globale della notte. Riposi le mie speranze nell’alba, pensando che avrebbe spazzato via tutto. Il sole quel giorno sarebbe sorto un po’ più tardi. Per un attimo ebbi l’assurda tentazione di andargli incontro e mi incamminai verso est. Mi fermai dopo pochi passi, distratto da una decina di puntini luminosi in fila indiana in mezzo al mare che indicavano il ritorno delle lampare. Mi voltai e mi avviai in direzione del porticciolo, in attesa dei pescatori.
Quella sera ritornai a casa esausto. La notte insonne e la lunga giornata di lavoro avevano lasciato il segno. Non ero più il ragazzino di una volta, manlevato dai lavori più duri. Ogni tanto mi sembrava di udire le vertebre scricchiolare e lamentarsi sotto il peso dei sacchi di calce da trenta chili. Costanza non era in casa. Ritornava sempre più tardi quando Vincenzo era via. Giovanna si sarebbe fermata a cena dagli zii. Mi spogliai e sciacquai via la fatica, prima di avventarmi in cucina ancora gocciolante per placare il brontolio dello stomaco. Udii la porta aprirsi e richiudersi un istante dopo.
“Sei tu?” gridai senza muovermi dalla sedia.
Costanza apparve sulla porta della cucina.
“Ho portato delle acciughe. Se riesci a resistere una mezz’oretta ceniamo insieme”.
“Non direi mai di no a un piatto di acciughe” risposi entusiasta.
Posò la borsa di tela sul pianale in marmo del lavabo. Prese una terrina e vi rovesciò dentro una ventina di acciughe di media grandezza. Indossò un grembiule e iniziò a pulirle, rapida e decisa. Si notava che era del mestiere.
“Lascio la lisca che facciamo prima”.
Non erano le spine del pesce azzurro il problema. Da quando era entrata in cucina, il sorriso non l’aveva abbandonata un solo istante, trasudava serenità. Sospettavo l’origine del suo stato d’animo, derivava da un comportamento che non esitavo a condannare come squallido e disonorevole.
“Continui a vedere quell’uomo?” attaccai polemico.
Si volse accigliata.
“Quell’uomo ha un nome. Si chiama Giacomo. Ebbene sì, continuiamo a vederci e la cosa continua a non riguardarti” ribatté secca.
“Ma come fai a condurre due vite parallele? Non pensi a quello che può provare Vincenzo, a quello che la gente dice di te?”.
Lasciò cadere l’acciuga che aveva in mano e si asciugò le mani nel grembiule. Vidi la cena allontanarsi e mi pentii di aver aperto bocca. Troppo tardi. Si sedette di fronte a me, inspirò profondamente come chi si appresta a uno sforzo prolungato, mi fissò dritto negli occhi e iniziò a parlare, calma:
“Due parallele non si incontrano mai, scorrono una di fianco all’altro senza punti di contatto. Te l’hanno insegnato pure a scuola, no? La mia vita è una, una sola. Travagliata, complicata, bella, brutta, ma una. E trasparente. Giacomo sa di Vincenzo e Vincenzo sa di Giacomo. Non c’è niente che non sia in contatto con il resto. Niente di nascosto, tutto alla luce del sole. La gente mormora?... e chissenefrega! Bisogna vergognarsi quando si fa del male al prossimo, quando si mente, quando si ruba. Davvero dovrebbe importarmi di ciò che dice la gente? Davvero dovrei farmi turbare da chi mi addita come peccatrice? Quelle persone, Guido, mi fanno pena. Chi bada agli altri è perché non è in pace con sé stesso. I moralisti, nella maggior parte dei casi, non sono altro che degli ipocriti che si interessano agli altri per evitare di dover aprire gli occhi su loro stessi e giudicare i propri comportamenti. Pietro, tuo padre, non ha voluto sposarmi, Vincenzo non ha potuto, Giacomo vorrebbe e potrebbe ma rispetta la mia scelta di vivere insieme a Vincenzo. Mi hanno portato via un figlio, altri due sono morti appena nati, all’ultimo non avrei rinunciato per niente al mondo. Non c’è proprio nulla di cui mi debba vergognare. Non ti dico questo perché tu mi compatisca. Forse ti sembrerà strano, ma nonostante tutto mi considero fortunata. Ho incontrato persone che mi hanno voluto bene, ho soddisfatto il desiderio più grande, quello di essere madre, ho un lavoro che mi permette di far studiare i miei figli e di dar loro da mangiare. Il mondo è pieno, purtroppo, di persone che stanno peggio di noi. Vincenzo... cosa pensa Vincenzo? Prima di conoscermi si era già sposato con un’altra donna con la quale aveva avuto una bambina. Tardò sei mesi per dirmelo. La moglie e la figlia emigrarono in Cile sedici anni fa, insieme ad altri parenti, alla ricerca di una vita più dignitosa. Vincenzo disse loro che le avrebbe raggiunte qualche mese dopo, poi scoppiò la guerra e senza visto tedesco non si poteva più espatriare. Figurati, il visto a lui che si era sempre rifiutato di prendere la tessera del partito fascista! E così rimase qui e incontrò me. Lo sai che mi ha conquistata non invitandomi a ballare, lasciandomi seduta tutta la sera? Morire mi ha fatto. Per un po’ gliel’ho fatta pagare. Mi sono fatta inseguire qualche giorno, ma in realtà non vedevo l’ora che mi raggiungesse. Mi era piaciuto fin dal primo sguardo. Ci ha unito da subito una grande passione, una passione che non ci ha mai abbandonato. Un bel giorno, all’improvviso, se ne è andato senza dire nulla. Giovanna non aveva ancora compiuto quattro anni. In un anno le uniche notizie che ho avuto di lui sono state due righe scritte su una vecchia foto per ricordarci che non si era dimenticato di noi. Non me l’ha mai confessato, ma dentro di me ho sempre pensato che fosse andato a trovare la moglie in Cile. Pensava, sbagliandosi, che non lo avrei capito. È ritornato un anno dopo, inaspettatamente, deciso a giocare sporco: o accettavo di tornare insieme a lui, o avrei perso Giovanna. Ho accettato di tornare a vivere insieme a lui a patto di continuare a incontrare Giacomo. Incredibilmente disse che gli andava bene, che per lui non c’erano problemi. Non saprei dirti perché, forse per il senso di colpa per averci abbandonate, o più probabilmente cullandosi nell’illusione che la passione che c’era tra noi fosse sufficiente per ricominciare daccapo come se nulla fosse successo. Ma la passione non basta, Guido, l’amore travolgente senza il rispetto è effimero. È come un arcobaleno: meraviglioso e affascinante, ma destinato a svanire presto”.
Smise di parlare ma non distolse lo sguardo. Gli occhi lucidi, finalmente vuoti.
Deglutii frastornato. Restai a fissarla per un tempo indefinito, inchiodato alla sedia, incapace di infrangere il silenzio che si era impadronito della casa. Poi poco a poco, lentamente, sentii fluire densa e viscosa una sensazione nuova. Per la prima volta mia madre, per la quale avevo provato un odio lacerante e un profondo disprezzo, mi fece pena.
“Scusa, mi dispiace” proferii contrito.
“Non fa niente” mi rassicurò socchiudendo gli occhi. Si avviò al lavabo e riprese a pulire il pesce.
Quella sera mangiai le acciughe più buone della mia vita.
Se sul fronte di mia madre avevo l’impressione di aver compiuto dei passi decisivi verso una piena riconciliazione, lo stesso non si può dire stesse accadendo per quanto riguardava mio padre. Il recupero sulla scena della figura materna evidenziava inesorabilmente l’assenza di quella paterna. Un vuoto netto e doloroso che ritornava prepotente a scuotere i miei sogni. L’uomo con l’impermeabile nero aveva ripreso a sopraggiungere improvviso e inaspettato, con la forza devastatrice di un uragano, lasciando dietro di sé il solito panorama desolato di miseria e morte. Diventavo ostile e invidioso della felicità altrui. Geloso della mia sofferenza, non mi confidavo con nessuno. Incapace di reagire, concedevo al rancore di sfogare la sua furia cieca. Poi attendevo, inerme, che ritornasse l’ordine nel caleidoscopio dei miei pensieri e constatavo con un brivido che più che i tempi del perdono, stavano rapidamente maturando, meno nobili e più pericolosi, quelli della vendetta.
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