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Il baco e la farfalla (capitolo 35)

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Messaggio Da Diego Repetto Mer 22 Gen 2014, 16:25

Settembre 1991

Leo iniziò a drogarsi il giorno del suo ventitreesimo compleanno. Non era rientrata per cena e Marcella deambulava senza sosta per la cucina in preda a una crescente agitazione. Aveva detto a Leo che avremmo festeggiato, le aveva anche comprato la sua torta preferita, la crostata di frutta con la crema pasticcera e la gelatina. Continuava a ripetermi che doveva esserle successo qualcosa. Non sapeva spiegarmi perché, lo sentiva e basta. Uscii promettendole che sarei andato a cercarla, un po’ per tranquillizzarla, un po’ perché avevo fumato l’intero pacchetto di sigarette ascoltando i suoi tristi presagi e sapevo che non avrei resistito oltre senza il conforto della nicotina. La trovai a poche centinaia di metri da casa, in un anfratto oscuro tra due palazzi. Era stato Billy, il bastardino di Leo, a trascinarmi lì. Quando mi ero avvicinato all’uscio mi si era avventato contro scodinzolando con il guinzaglio in bocca. Una volta in strada aveva iniziato ad abbaiare furiosamente e a tirare come un ossesso nella direzione opposta al tabaccaio. Avevo provato inutilmente a riportarlo all’ordine, dopodiché mi ero rassegnato e mi ero lasciato trainare senza opporre resistenza. La corsa impazzita del cane si era arrestata all’improvviso in prossimità di una angusta intercapedine tra due palazzine. La luce fioca di un lampione disegnava per terra un striscia sottile, facendo emergere dall’oscurità una mezza gamba, adagiata sull’asfalto come una protesi abbandonata. Avevo atteso che l’occhio si abituasse al buio e mi ero poi avvicinato all’arto illuminato. Una ragazza giaceva inerme nell’ombra, riversa sul terreno in posizione innaturale. Quando Billy si avvicinò a leccarle il polpaccio mi si gelò il sangue. Avevo trovato Leo. Mi inginocchiai, le sollevai la testa delicatamente e spostai il corpo alla luce. Aveva il viso emaciato, le palpebre semichiuse e un laccio emostatico stretto intorno al braccio. Mi avvicinai al viso di Leo e la chiamai per nome. La ragazza ebbe un sussulto e mormorò qualcosa di incomprensibile. Le liberai il braccio dalla stretta del laccio. La pelle era fredda, madida di sudore, il respiro affannato. Il piccolo bastardino si avvicinò al volto pallido della padrona ed emise un guaito acuto e prolungato. Poi si volse rabbioso verso un nemico immaginario e iniziò ad abbaiare furiosamente. Presi Leo in braccio e mi avviai verso casa. Il suo corpo era leggero e fragile, come la sua anima. Un’amarezza viscosa mi si addensò in mezzo alla gola e scivolò lentamente verso il basso, appiccicandosi intorno allo stomaco. La corsa era arrivata al capolinea. La ragazzina solare che avevo incontrato sette anni prima era svanita definitivamente, i suoi sogni cancellati, ricoperti in modo uniforme da una soffice e letale polvere bianca.

Poco dopo essermi trasferito in Lombardia avevo trovato lavoro in una ditta di trasporti con sede a Perugia, ma operante soprattutto nel nord. Raramente gli spostamenti superavano i duecento chilometri, distanza che mi permetteva di svolgere la consegna in giornata senza essere costretto a pernottare fuori. Il mio lavoro era ben pagato e Leo, contrariamente a quanto prospettato da Marcella, non era stata costretta ad abbandonare gli studi, per i quali però non aveva mai mostrato grande interesse ed entusiasmo. Si era trascinata fino al diploma stancamente, come un alpinista che sa che la vetta che ha di fronte non è il punto d’arrivo della spedizione, bensì nasconde alla vista la vera cima della montagna, più alta e più faticosa da raggiungere. Non aveva voluto iscriversi all’università perché, diceva, il mondo, quello vero, non si studia sui libri o rinchiusi in un laboratorio, ma per strada, osservando l’indifferenza della gente nei confronti di una persona anziana che non è in grado di attraversare la strada da sola, ascoltando l’incomunicabilità assordante tra un neonato e la propria madre, rendendosi conto quotidianamente sulla propria pelle del furto che il potere compie ai danni della nostra individualità e della nostra fantasia, con l’unico aberrante obiettivo di renderci tutti un po’ più uguali e un po’ più grigi. Aveva trascorso così alcuni anni, svolgendo piccoli lavori saltuari e alternandoli a lunghi periodi di inattività durante i quali vagabondava apatica senza meta, lasciandosi trascinare dalla corrente. Sembrava incapace di invertire la rotta, come un tonno che nuota inconsapevole lungo corridoi interconnessi di reti, ignaro che in fondo a quel labirinto lo aspetta, assetata di sangue, la camera della morte. Marcella, occupata con gli altri figli e con un nuovo lavoro al mercato, non era riuscita a trattenere quella figlia che le stava sfuggendo via davanti agli occhi. Nemmeno io ero stato in grado di frenare in qualche modo la crescente estraneità di Leo all’interno della famiglia. Dopo aver fallito come padre biologico (non avevo mai più visto né sentito Luca e Paola), mi ritrovavo ora a fronteggiare una nuova e bruciante sconfitta come padre adottivo.
Entrai in casa sfiancato dallo sforzo fisico e, ancor di più, da quello morale. Marcella lanciò un urlo atroce e si coprì il viso con le mani non appena si accorse dell’ematoma color prugna sulla parte interna del braccio della figlia, all’altezza del gomito. Adagiai Leo sul divano. Un silenzio denso e pesante penetrò nella stanza saturandola. La ragazza giacque incosciente per alcuni minuti, poi poco a poco riprese conoscenza. Marcella, quando la vide sollevare le palpebre, tirò un sospiro di sollievo e lasciò che le lacrime sciacquassero via la paura.
Leo, incalzata da un fuoco incrociato di domande, non seppe spiegare perché lo aveva fatto. Disse solamente che la scelta del luogo dove bucarsi per la prima volta non era stata casuale. Vicino a dove abitavamo, in modo che l’avremmo potuta trovare se non fosse stata in grado di tornare a casa con le proprie gambe.
Procurarsi una dose a Vigevano era tanto semplice quasi come comprarsi un gelato. Era solo un po’ più caro, ma a chi non possedeva soldi a sufficienza venivano proposte offerte speciali. Eroina tagliata abbondantemente, prezzi stracciati in cambio di un prodotto di pessima qualità, ma efficace ugualmente a garantire sessanta secondi di sballo euforico. Lo sapevano tutti dove veniva spacciata, carabinieri compresi, eppure la tossicodipendenza, l’ultimo livello del multimiliardario commercio della droga, veniva trattata come un fenomeno innocuo con il quale convivere piuttosto che come una pianta infestante e velenosa da dover estirpare. Sembrava che nessuno avesse capito che la chiave per smantellare l’intero sistema potesse trovarsi proprio lì, tra i giovani eroinomani. Se si fosse riuscito a ridurre la domanda, le ripercussioni sull’offerta sarebbero state devastanti. Bisognava agire a monte, spiazzando la criminalità con un dirompente e innovativo progetto sociale che creasse terra bruciata intorno al mondo dell’illegalità. Invece le istituzioni erano assenti e quando, come nel caso di Leo, anche le famiglie risultavano impotenti, ecco che incominciava il calvario, disseminato di sudori freddi, pruriti, ansie, visioni, alterazioni dei sensi.

Furono mesi terribili. Leo diventò presto dipendente e incominciò a iniettarsi eroina sempre più spesso, sperperando i pochi soldi che guadagnava e prendendo di nascosto in prestito i nostri quando i suoi non le bastavano. Le violente crisi di astinenza devastavano il suo esile corpo che sembrava doversi spezzare da un momento all’altro, come un sottile filo d’erba in balìa di un vento tempestoso. Il metadone che le somministravo regolarmente e i lunghi massaggi che pazientemente le facevo agivano da calmanti temporanei sui sintomi, senza però riuscire a sostituire l’euforia effimera dell’eroina. Se Leo avesse continuato a potersela procurare con facilità, nessun surrogato sarebbe stato sufficiente a farla uscire dal tunnel. L’unica soluzione consisteva nell’impedire che la droga giungesse in suo possesso. Dovevo in qualche modo prosciugare la sua sorgente di rifornimento.
Una sera, dopo l’ennesima crisi, Leo uscì senza dire nulla. Mi infilai di corsa una giacca e la seguii lungo la strada senza farmi vedere, protetto dalla notte. Volevo scoprire chi le vendeva le dosi. Leo camminava rapida e decisa senza guardarsi intorno. I miei cinquant’anni suonati passavano fattura e faticavo a starle dietro. Giunta nel parcheggio di un supermercato, si avvicinò a due ragazzi seduti a cavalcioni su due ciclomotori. Mi acquattai dietro un’automobile e osservai la scena. Ero troppo lontano ed era troppo buio per scorgerne i lineamenti. Dopo una breve contrattazione, il ragazzo più basso infilò la mano nella tasca interna del giubbotto e l’allungò poi in direzione di Leo. La ragazza prese ciò che le interessava, pagò lo spacciatore e si allontanò dal parcheggio a passo svelto. Non appena svoltò dietro a un isolato, affrettai l’andatura e la chiamai. Si girò di scatto.
“Leo, ti prego, non farlo”.
“Non immischiarti Guido, non sono affari tuoi”.
Nel frattempo l’avevo raggiunta. La guardai dritto negli occhi.
“Quella roba ti sta distruggendo, lo capisci?”.
“Sì, ma non ne posso fare a meno. È come un’amica che sai che ti sta fottendo ma di cui non puoi fare a meno di fidarti, perché è l’unica che ti fa sentire bene”.
Un soffio di vento improvviso sospinse una nuvola pigra e la luce velata della luna rischiarò il pallido viso di Leo. Una compatta rassegnazione le inumidì gli occhi.
“Puoi farcela, se vuoi” la spronai.
“Ma io non so se voglio”.
La strinsi forte contro di me e aspettai che finisse di singhiozzare prima di sciogliere l’abbraccio. Non me lo disse, ma ebbi l’impressione che fosse contenta di ritornare a casa insieme.

Il giorno dopo avevo una consegna alla periferia di Milano. Mi svegliai presto e una volta consegnata la merce parcheggiai il furgone a una fermata e proseguii in tram verso il centro. I personaggi dei sogni e degli incubi popolavano ancora gli sguardi assonnati dei pendolari e lunghi sbadigli accompagnavano le persone al lavoro.
Il bar Nicolini era lungo e stretto. La puzza di fumo e l’odore di caffè si erano sparsi ovunque, occupando con solerzia ogni angolo del locale e infilandosi diligentemente nelle venature delle vecchie sedie di legno. Le pareti spoglie piangevano l’antico candore scrostandosi mestamente. Lacrime secche e friabili di intonaco erano colate sul pavimento e giacevano dimenticate una di fianco all’altra, vegliate dallo zoccolo dipinto a lutto.
“Sto cercando Enrico” dissi all’uomo dietro al bancone. Erano trascorsi vent’anni dall’ultima volta che ci eravamo visti. Era un tentativo folle, non avevo alcuna speranza di ritrovarlo, ma sapevo che se ci fossi riuscito non avrebbe esitato ad aiutarmi.
“Chi lo cerca?” domandò il tizio con aria stanca e decadente, la stessa che si respirava all’interno del bar.
“Guido” risposi con un misto di sorpresa e felicità.
“E perché?”.
“È un mio vecchio amico. Ho bisogno di un favore”.
“Ritorna domani a quest’ora. Se hai detto la verità lo troverai qui”.
Evidentemente bazzicava ancora all’interno del mondo della criminalità, altrimenti non si spiegava la diffidenza con la quale mi aveva trattato il proprietario del bar.

L’indomani ad aspettarmi trovai un vecchio assorto in una nuvola di fumo. Profonde rughe gli segnavano il volto asciutto in modo regolare, come solchi di un campo appena arato. Enrico mi salutò affettuosamente pizzicandomi una guancia. Ci raccontammo brevemente le nostre vite degli ultimi anni, dopodiché gli spiegai perché lo avevo cercato.
“Non preoccuparti” mi disse appoggiandomi una mano sulla spalla. “Io ormai sono troppo vecchio, ma conosco alcune persone che ti risolveranno il problema. Tu occupati solamente di vigilare la tua figlioccia, al resto ci penseranno loro”.

Cinque giorni dopo, sulla cronaca locale di Vigevano, apparve la notizia che due giovani, di venticinque e ventotto anni, erano stati prelevati da quattro sconosciuti, trasportati nel parco del Ticino e lì, lontano da occhi indiscreti, pestati a sangue. I due giovani erano stati abbandonati poi in un’area di sosta, dove erano stati avvistati da un camionista che aveva prontamente allertato i soccorsi. La prognosi per entrambi era riservata, anche se i medici sostenevano che non si incontravano in pericolo di morte. Il furgone utilizzato per il delitto era stato ritrovato poco lontano dal luogo in cui i giovani erano stati rinvenuti. Risultava rubato il giorno prima a Milano. I due ragazzi erano entrambi incensurati e di buona famiglia. Dalle prime dichiarazioni dei carabinieri, si ignoravano le ragioni di quell’orrendo gesto criminale. Informazioni utili alle indagini sarebbero emerse non appena il magistrato incaricato del caso avesse potuto procedere con l’interrogatorio delle due vittime. Nel frattempo i famigliari, letteralmente sconvolti, avevano esposto una denuncia per percosse e tentato omicidio contro ignoti.
Durante il primo periodo in carcere ero entrato in contatto con il mondo della criminalità e avevo imparato a conoscerne i metodi peculiari che venivano utilizzati per risolvere alcuni problemi. Lessi quindi la notizia senza stupore e senza alcuna pena nei confronti dei due spacciatori. Pensai con freddezza e distacco che avevano ricevuto semplicemente la lezione che si meritavano. A cena commentai l’accaduto e Leo mi lanciò uno sguardo inquisitore come se avesse intuito che fossi in qualche maniera responsabile, ma non diede voce ai suoi sospetti.
La settimana successiva Marcella lasciò il lavoro per dedicarsi anima e corpo alla figlia. Con la madre che la seguiva costantemente e con la fonte abituale della droga prosciugata Leo smise di bucarsi, superò sempre meglio le sempre più rare crisi di astinenza e in alcuni mesi riuscì a liberarsi dalla dipendenza e ad uscire definitivamente dall’incubo dell’eroina.
Dopo un anno circa conobbe un ragazzo nella palestra in cui seguiva un corso di aerobica. Leo si trasferì quasi subito a casa del fidanzato, trovò un lavoro come commessa in un negozio di vestiti e un anno più tardi misero al mondo una splendida bambina.

Diego Repetto
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