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IL CERCHIO

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Messaggio Da Francesca Verginella Ven 11 Gen 2013, 18:44

PROLOGO

Il suo orologio digitale segnava appena le 5:45 del mattino ma lui era già sveglio da quasi un'ora. Il vagone della metropolitana sul quale stava viaggiando lo stava velocemente accompagnato sul luogo di lavoro. Era un semplice addetto alla sicurezza della metropolitana stessa: il suo compito era quello di osservare attraverso diversi monitor le immagini catturate dalle numerose telecamere a circuito chiuso posizionate lungo tutta la rete di trasporti che si intersecava nel sottosuolo della città.
Alcune di queste telecamere erano collocate a livello del piano stradale, per inquadrare alcuni degli ingressi che dalla superficie scendevano ad uno dei tre livelli sotterranei nei quali era organizzata la metropolitana. Altre erano sistemate nelle gallerie attraverso le quali scorreva il traffico suburbano: erano state attivate soprattutto per una questione di sicurezza per gli operai che avevano accesso ai binari e per controllare i punti meno accessibili in caso di uno sfortunato incidente. Ma le telecamere più numerose erano puntate verso i punti nevralgici dell'intera struttura: le stazioni.
La più controllata era la fermata del Duomo. Era anche la più grande e, soprattutto, la più trafficata. Tutte e tre le linee di trasporto si intersecavano proprio in quel punto, anche se a tre livelli diversi.
La Linea 1 (verde) era quella costruita più vicina alla superficie, le sue vetture correvano da ovest verso est per poi cambiare direzione proprio a livello della stazione del Duomo, salendo direttamente verso la zona nord della città.
La Linea 2 (blu) aveva i binari al secondo piano interrato. Anche questa formava una "L" invertita e rovesciata rispetto alla Linea 1: prima saliva da sud a nord e poi ripiegava verso est. Incontrava la Linea verde in due punti: la stazione vicina al Museo e il Duomo.
Infine la Linea tre (gialla) i cui binari scorrevano a livello -3. Tagliava come una linea obliqua la città, scendendo da nord-ovest fino a sud-est e passando naturalmente per il cuore della metropoli ed attraversando la stazione più centrale.
Quello non era il lavoro migliore al quale poteva ambire e certamente non era il primo della lista tra le sue preferenze, ma era quello che aveva trovato. Passava otto ore al giorno di fronte ad una decina di video che proiettavano solo immagini in bianco e nero: l'inquadratura era statica ed il mondo che riusciva ad inscatolare era davvero piccolo, ma in quella ristretta porzione di spazio definita dai pixel transitavano diversi universi.
Attraverso le telecamere poteva osservare gli uomini d'affari che si avviavano al lavoro con passo frenetico e con l'orecchio già collegato con l'ufficio tramite l'auricolare del telefonino, i ragazzi che andavano a scuola, le donne che si recavano in centro, i turisti sempre muniti di mappa della metropolitana.
Oppure scopriva i borseggi ed i piccoli illeciti che il sottosuolo prometteva di nascondere agli occhi della città ma che venivano traditi dalle telecamere nascoste.
Lui era sempre collegato con gli uomini e le donne del servizio d'ordine che pattugliavano atri e gallerie: gli bastava comunicare con uno di loro per indirizzarli verso quella o quell'altra zona dove era necessario un intervento. Lui era l'occhio che vedeva l'obbiettivo e loro il braccio che lo raggiungeva. Ovviamente non era tutto così semplice.

"Ciao, sono contento di vederti! L'ultima ora del turno non voleva più passare."
"Invece alla fine sono venuto a salvarti e a darti il cambio. E' finalmente giunta per te l'ora di tornare a casa."
L'uomo di mezza età si alzò dalla sedia che l'azienda aveva concordato insieme ai rappresentanti sindacali: era stata giudicata "soddisfacente a garantire la corretta postura per i lavoratori che dovevano trascorrere le otto ore quotidiane seduti di fronte ai video di controllo", ma tutti i lavoratori erano concordi nel reputare che dopo otto ore qualsiasi sedia, per quanto omologata ed approvata, risultava dannosa e dolorosa.
Staccò il jack che collegava il proprio auricolare alla consolle principale e lasciò il posto al collega appena arrivato.
"Come sta il mondo in superficie?"
"Bagnato! Saranno almeno tre ore che sta diluviando e non sembra voglia smettere."
"Accidenti! E io non ho l'ombrello." continuava a trafficare con la borsa che l'azienda forniva a tutti i suoi dipendenti, ed intanto con la mente era già arrivato a casa.
"Hai nulla da segnalarmi?", aveva già indossato l'auricolare personale dotato di microfono e giocherellava con il cavo mentre parlava al collega già pronto per andarsene.
"No! Nulla! Pare tutto tranquillo oggi." Il saluto che gli rivolse in seguito rimase chiuso fuori dalla stanza perché l'uomo si era frettolosamente diretto verso i binari per non perdere il treno delle 6:10.

La sala era vuota. Lui era solo di fronte ai video distesi sull'intera parete che accendevano una cupa luce grigia su ogni oggetto racchiuso nel piccolo antro. Non c'erano altre fonti luminose ad eccezione di una piccola lampada che illuminava il piano di controllo. Non si udivano rumori, solo il vibrante scorrere della corrente elettrica attraverso gli apparecchi ad essa collegati. Alla sua destra ed alla sua sinistra c'erano altre stanze uguali a quella e dentro vi lavoravano altri uomini che facevano il suo stesso lavoro: ognuno doveva controllare un diverso settore della metropolitana. A lui era assegnata la zona circostante la Stazione Duomo.
Collegò il jack alla presa della consolle. Una voce digitale lo avvertì, come sempre quando compiva questa operazione, che tutti i sistemi erano operativi e che le linee di comunicazione con i vari livelli erano aperte. Se non si metteva in contatto con gli uomini presenti nelle varie stazioni non avrebbe udito altro per tutto il resto del turno.
Ognuno dei video che aveva di fronte a sé era collegato ad almeno una decina di telecamere e lui poteva decidere quali accendere e in che ordine. La mattina era appena incominciata ma facendo scorrere le inquadrature sugli schermi si accorse che, come tutti i giorni lavorativi, ogni angolo della stazione era già stato invaso da una moltitudine di viaggiatori. Le banchine che ricevevano chi giungeva alla stazione centrale della rete erano gremite di gente che si avviava al lavoro e quelle che accoglievano chi si apprestava a raggiungere in metropolitana le zone più periferiche della città erano sature di persone che, per lo stesso motivo, si muovevano nella direzione opposta.
Lui poteva captare le immagini registrate dalle telecamere ma non i suoni perché non c'erano microfoni: ogni giorno guardava quello strano film muto sempre simile a quello del giorno precedente, ma ogni volta diverso da quello successivo.

ZERO

Dopo quasi un anno che svolgeva questo lavoro aveva acquisito la facoltà di udire ciò che accadeva al di là della telecamera. In realtà si trattava di immaginazione, ma non si trattava unicamente di suoni inventati. Le figure che apparivano sugli schermi di vetro si mostravano a lui in un certo modo: così era facile per lui ipotizzare di cosa stessero parlando quei due uomini vestiti con lo stesso abito scuro racchiusi nello schermo n°5 o supporre il caos che fuoriusciva dal gruppo di studenti raffigurato nello schermo n°9.
Certamente erano congetture, ma lui cercava di basarsi su fatti certi, sull'immagine delle persone che traspariva attraverso il video, sulla loro postura, sul loro modo di guardare e di muovere le mani. Non cercava certo di ricostruire la realtà ma sperava di riuscire a capire più di quanto non potessero fargli vedere le fredde ed impersonali riprese delle telecamere. Oppure era semplicemente un gioco per far scorrere il tempo, che quando è silenzioso diventa anche più lento e pesante.

Sul grande orologio che dominava l'atrio della stazione erano da poco scattate le cifre che segavano le 7:00 quando la sua attenzione venne attratta da una donna che sedeva su una panchina. Questa persona lo colpì perché dava l'impressione che lo stesse guardando negli occhi; invece la donna vestita di grigio stava fissando un punto di fronte a sé che solo per puro caso corrispondeva al fuoco della lente ottica della telecamera.
Si era seduta su una delle panchine dal design curvo disposte a formare un cerchio chiuso poste al primo piano interrato della stazione: erano opera dello stesso architetto (di cui non ricordava più né la nazionalità né tantomeno il nome) che aveva progettato la Stazione Duomo: la circonferenza era la forma geometrica che più ricorreva nel suo progetto, che con grande fantasia chiamò "Il Cerchio": dalla pianta stessa della stazione alle installazioni tridimensionali poste a livello della strada di fronte all'ingresso principale della metropolitana.
Lei continuava a puntare lo sguardo là dove credeva che non ci fosse nessuno, invece lui era lì a leggere ciò che quelle pupille nere lasciavano trasparire.
La forma triangolare del viso era accentuata dall'acconciatura: stretta ed austera. Il pallore che illuminava le sue guance non era dovuto unicamente alla limitazione del video, capace di spaziare solo sulle diverse gradazioni del grigio; il monotono colore traspariva oltre lo strato di fondotinta e attraverso il tailleur griffato.
Il volto da madonna del duemila, affaticata dai ritmi aziendali e derubata della femminilità più ingenua e quindi più vera, rimase staticamente inquadrato dalla telecamera n°27, mentre la 30 e 35 la riprendevano di lato e di schiena.

Era una manager colta, aggressiva, abituata a dirigere la vita degli altri... e tremendamente insicura. Ma non lo dava a vedere: continuava a portarsi con estrema lentezza la sigaretta alla bocca e, con altrettanta soavità, arricciava la bocca da cui espirava il fumo dandogli la forma di un anello. Eppure lui riusciva a vederla dentro, quasi come se il filmato riuscisse a radiografarle l'anima.
Il mondo che si era scelta era molto attento a certi valori: essere audaci negli affari, arrivare prima degli altri, essere migliore di tutti. Lei aveva sempre dimostrato di avere tutti i requisiti e molti le avevano riconosciuto quel valore che meritava. Ma oggi si sentiva meno di zero.
Tra una boccata e l'altra del suo inquinante personale, sorseggiava un cappuccino dal bicchiere di carta del Fast Food, aperto 24 ore su 24, che si era impadronito di buona parte dei locali adibiti alla vendita del piano -1.
Non parlava ma lui la sentiva porsi le domande le cui risposte promettevano di devastarle la vita: "cosa posso fare per sentirmi un po' meglio? Per provare a me stessa che non sono diventata uno zero, un "nulla di fatto"? Mi sento fragile ed insicura...Ecco cosa farò: mi costruirò una corazza che mi salverà da tutta la debolezza che mi invade e continuerò a vivere... Ma così mi consumerò dal di dentro e brucerò fino ad annullarmi... Ed allora cosa farò per non essere una nullità?..."
Non era stato un uomo a ridurla in quello stato, non era colpa della famiglia in cui era cresciuta, non era stato l'atteggiamento competitivo di chi la circondava; il suo disagio le nasceva da dentro.
Ciò che aveva dentro non corrispondeva più a quello che appariva all'esterno; è vero che un libro non va giudicato dalla copertina ma quella donna era stata modificata molto più di quanto ella stessa non sapesse.
Le sue scelte l'avevano profondamente cambiata: gli studi specifici, il lavoro, le conoscenze giuste, la rinuncia a tutto ciò non fosse conforme allo stile che aveva fatto suo. Ma nonostante tutte le certezze e le pianificazioni era infine giunto il momento che lei non aveva previsto: il momento in cui il contenuto pareva sconvolto dalla sua esteriorità.

Era difficile per lei rendersi improvvisamente conto che i suoi desideri più veri e profondi erano incompatibili con tutto ciò che aveva costruito. Come era potuto accadere?
Qual è stato il principio di tutto? Il nervosismo e la rabbia con cui schiacciò la sigaretta nel portacenere colmo di sabbia rivelavano la sua angoscia anche al resto dell'umanità, ma al contrario di lui che la stava osservando, l'umanità al completo parve indifferente alla sua esternazione. Forse aveva ritrovato l'attimo che le fece fare la svolta decisiva, che le fece imboccare la strada che ora reputava errata.
Il suo sguardo si era chiarificato e non solo perché non era più velato dalle esalazioni che fumavano dalla sigaretta; il suo occhio andava lontano, a ritroso nel tempo, fino a rivedere quel cavaliere sul destriero bianco che portava una corona d'oro sulla testa. Ora poteva riconoscerlo per quello che era: era solo un uomo su un somaro grigio che in testa aveva una vecchia pentola di latta.
Si era lasciata attrarre da ciò che pareva corrispondere ai requisiti che lei voleva, invece era stata ammaliata da qualcosa di effimero. Come aveva potuto sacrificarsi al punto tale che ora non riconosceva più sé stessa?

Scoprì il polso sottile e diede una rapida occhiata all'orologio. Gettò il bicchiere ormai vuoto e riprese in mano la valigetta che fino a quel momento aveva appoggiato sul sedile della panchina, accanto a sé. Con passi nervosi si avviò verso le scale che scendevano al piano inferiore della stazione. Lui seguì i suoi movimenti attraverso le telecamere 41 e 42, quelle che inquadravano in sequenza l'inizio e la fine della scala. Giunse fino a livello della Linea tre e si fermò proprio sulla banchina che l'avrebbe portata a nord-ovest, verso la zona industriale. Ricontrollò la posizione delle lancette del suo orologio da polso, erano passati tre minuti dall'ultima volta che le aveva consultate.
Quando sollevò la testa bionda apparve sul suo bel viso un sorriso malinconico: aveva appena trentacinque anni ed era piena di rimpianti per le rinunce che si era autoimposta, aveva già trentacinque anni e tutto ciò che possedeva non la soddisfaceva affatto.
Una luce balenò attraverso quegli occhi resi più scuri dalla lontananza dalla quale venivano inquadrati, e fu come se lo spirito di rivalsa echeggiasse dentro di lei: "Se io ho creato tutto questo allora solo io posso cambiare le cose. Di qualunque natura siano gli ostacoli (divini o altro) io li supererò. A chiunque giunga a competere con me (Dio o altro) io infliggerò una dura sconfitta."
Come vide il balenio della speranza, che accese per un istante anche la stanzetta in cui era rinchiuso, così fu anche testimone dell'oscuramento che ne seguì: la consapevolezza della sua reale situazione le provocò un dolore ancora più grande per essersi così scioccamente illusa.
Quando aveva dovuto operare delle scelte, lei non aveva proceduto lentamente lungo la costa, ma aveva puntato verso il mare, guidata da una stella... ed oggi in una notte completamente buia si era ritrovata sola e sperduta. Aveva creduto di potersi ritrovare e di riuscire a ricongiungersi con i propri desideri, ma gli infelici paradossi che avevano costellato la sua vita avevano esaurito le sue forze.
Aveva scelto di lavorare per sentirsi libera e non si era sposata per sentirsi forte, ma adesso sentiva la forte pulsione a liberarsi del proprio lavoro e di fortificarsi creando attorno a sé una famiglia.

Lei salì sul vagone subito dietro la motrice e se ne andò lasciandolo solo con i dubbi che gli occhi femminili gli avevano ispirato; non aveva molta importanza sapere se quei dilemmi rendevano davvero incerta la vita della donna vestita di grigio.
Lui rimase pensieroso per tutto il giorno, quasi in trance di fronte alla vibrazione quasi impercettibile degli schermi di fronte a sé. Continuava a chiedersi se fosse stata lei la sola artefice delle proprie illusioni oppure se era stato il mondo che l'aveva accolta ad illuderla senza lasciarle la minima possibilità di salvarsi.
Erano due tesi contraddittorie e certamente non potevano essere entrambe giuste, ma riferite all'essere umano potevano benissimo essere entrambe vere.


Francesca Verginella
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