Il baco e la farfalla (capitolo 3)
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Il baco e la farfalla (capitolo 3)
Settembre 1948
“Allora? Sei pronto? Dai che voglio passare dal barbiere prima di andare dal sarto”.
Si allacciò l’ultimo bottone della camicia, prese una cravatta dal cassetto e si fece il nodo guardandosi allo specchio. Con il palmo della mano si sistemò una ciocca ribelle. Diede un’ultima sistemata alla cravatta e rimase qualche secondo a fissare la sua immagine riflessa. Poi si volse verso di me.
“Fatti vedere”.
Mi avvicinai e restai dritto in piedi di fronte a lui, le mani lungo i fianchi, il mento leggermente sollevato. Nonostante fosse sabato mi aveva fatto indossare il vestito della domenica. I pantaloni corti beige, la camicia bianca e il gilet testa di moro. Erano già trascorsi cinque anni dall’armistizio. Nel frattempo l’Italia era diventata una Repubblica e in primavera la Democrazia Cristiana aveva vinto le prime elezioni, ma il giorno in cui era stata firmata la pace con l’Inghilterra e gli Stati Uniti era particolarmente sentito da mio padre e come ogni anno, dalla fine della guerra, si sarebbe riunito con tutti gli amici più cari. Ci teneva a fare bella figura. Non doveva apparire che stavamo attraversando un brutto momento dal punto di vista economico. Non voleva essere compatito, non voleva gli venissero offerti dei soldi. Non ne aveva mai chiesti in prestito e ne andava fiero.
“Lavati i denti e andiamo”.
Andai in bagno per eseguire quello che più che un invito era stato un ordine. Quando uscii dal bagno stava indossando il cappotto. Non faceva freddo, ma la tasca interna era un buon posto per nascondere la pistola. Sapevo che mio padre girava armato. Un giorno lo avevo sorpreso mentre riponeva la pistola tra le camicie in un cassetto. Questa non la devi toccare, mai, per nessuna ragione, mi aveva detto serio, frustrando sul nascere la mia curiosità. Uscii contento, accompagnato dal ricordo dell’anno precedente in cui la giornata era trascorsa tra i ricordi e le battute dei compagni di mio padre. Mi divertiva sentirlo chiamare con il nome di battaglia, Cesare. Non mi ero perso nemmeno mezza parola dei loro discorsi, girando la testa da una parte all’altra come se stessi assistendo alla finale del torneo di Wimbledon. Andammo al bar, dove ci stava aspettando suo fratello. Non si assomigliavano per niente. La domanda più ricorrente che veniva loro rivolta in tono scherzoso era se fossero sicuri di essere entrambi figli dello stesso padre e della stessa madre. Solitamente lo zio era molto affettuoso, generoso di buffetti e carezze sulle guance e sulla testa. Quel giorno invece, quando entrammo nel bar, non mi degnò nemmeno di uno sguardo. Era visibilmente nervoso, sembrava avesse fretta, come se avesse un appuntamento con qualcuno. Ordinarono un caffè. Mio padre si mise a sfogliare il giornale.
“Senti, vai dal barbiere prima di passare da Lollo?”.
“Sì, ma prima devo passare dal sarto, questo cappotto proprio non ce la fa più. Perché?”.
“No, niente. Magari vi accompagno, così sto con Guido”.
Ah, ma allora sa che esisto, pensai con sollievo.
“Non è necessario, ma se ti fa piacere...” disse mio padre distrattamente, continuando a leggere.
“No! Hanno arrestato Ninetto!” esclamò all’improvviso. “Ti rendi conto della situazione di merda che si è creata? Che schifo... prima eravamo gli eroi, i salvatori della patria, ora ci trattano come sovversivi. Dicono che mettiamo in pericolo la democrazia appena nata. E la stampa dà credito a qualsiasi menzogna, è incredibile. Un qualsiasi maresciallo dei carabinieri, uno che non si sogna nemmeno cosa sia lottare per la democrazia... io non sopporto la gente così, di quelli che gli va bene tutto. C’è il fascismo? Bene. Il fascismo viene sconfitto? Bene lo stesso. C’è la monarchia? Bene. L’Italia diventa una Repubblica? Bene lo stesso. Ma come cazzo fa ad andargli sempre bene tutto? Non ce l’hanno un’idea su come dovrebbero andare le cose, un’opinione su cosa è giusto e cosa no?.... Beh, uno di questi si sveglia una mattina e dice che tizio è un sovversivo e la notizia esce sui giornali. E quando esce sui giornali.... stac... hai appiccicata sulla fronte l’etichetta e togliersela diventa quasi impossibile”.
Aveva accompagnato la parola etichetta colpendosi la fronte con il palmo della mano. Continuò: “Ah, e la sai l’ultima. Girano voci che vogliano arrestare anche me, credono che sia il responsabile dell’attentato contro la caserma di Pegli. Piuttosto che farmi dei giorni di galera da innocente mi faccio ammazzare”.
E istintivamente appoggiò la mano sul cappotto, all’altezza della tasca interna.
“Dovresti invece evitare di rispondere alle ingiustizie con la violenza” lo ammonì il fratello. “Non ne vale la pena, e poi se sei innocente.....”.
“Se sei innocente sei tranquillo” lo interruppe mio padre con sarcasmo, e aggiunse, nel caso non fosse stata colta l’ironia delle sue parole: “Non gliene frega niente se sei innocente o colpevole”.
Mi stavo annoiando. Non capivo i discorsi che facevano. E poi nel bar c’era un’aria irrespirabile, una cappa di fumo denso che avrebbero dovuto mettere un cartello - se ti alzi dalla sedia e non vedi il bancone, cammina con prudenza. Fui contento così quando mio padre ripiegò il giornale, lo appoggiò sul tavolo e si alzò. Scattai dalla sedia e lo anticipai all’uscita.
La moglie del sarto ci invitò ad entrare. Offrì a mio padre e allo zio un caffè che rifiutarono educatamente.
“La ringrazio, lo abbiamo appena preso al bar”.
Il laboratorio era stato ricavato in una stanza dell’appartamento. Su un grosso tavolo di legno troneggiava la macchina da cucire. C’erano pezzi di stoffa ovunque, camicie e pantaloni ammucchiati sulle sedie e su un divano. Mi domandai come facesse a trovare le cose in mezzo a quel disordine. Il sarto ero un tipetto basso e magro che non perdeva occasione di ricordare al mondo intero quanto fosse bravo a fare il suo mestiere.
“Venga, ecco, si tolga questo cappotto sdrucito che gliene faccio uno su misura, uno che così bello non l’ha mai visto, talmente bello ed elegante che per strada la gente si volterà ad ammirarlo”.
Aiutò mio padre a togliersi il cappotto vecchio e lo gettò sopra una montagna di vestiti. Da un cassetto estrasse un metro e iniziò a misurare braccia, torace, vita e gambe di mio padre. Ripeteva ad alta voce i numeri e li annotava su un bloc notes.
“Mi creda, sarà il cappotto più bello che abbia mai avuto, le calzerà a pennello. La stoffa la sceglierà poi con mia moglie. Ma il segreto del successo sta tutto qui” e indicò il foglietto su cui aveva scritto le varie misure. “Un centimetro in più o in meno fa la differenza. Certo, poi bisogna saper rifinire le cuciture, ma delle buone misure sono come le fondamenta di una casa, reggono tutto il resto”.
Erano trascorsi almeno dieci minuti quando mio padre guardò l’ora senza dire niente, sperando che il sarto capisse che aveva fretta. Negli anni trascorsi insieme ho sempre avuto l’impressione che mio padre avesse fretta, che non potesse mai fermarsi per rilassarsi un po’. Aveva sempre qualcosa da fare e si lamentava in continuazione che per lui il tempo scorreva troppo velocemente. Quella mattina stranamente anche lo zio era teso e passeggiava avanti e indietro per la stanza, fermandosi di
tanto in tanto per osservare prima il sarto, poi il fratello. Gli aveva detto che lo accompagnava per stare insieme a me, ma fino a quel momento non mi aveva rivolto la parola nemmeno una volta. Indifferente alla sua indifferenza, girovagavo incantato per la stanza toccando con curiosità i vari tessuti. Quel luogo caotico e colorato mi intrigava. Afferrai un paio di forbici che spuntavano da sotto un cumulo di stoffa rossa e chiesi se potevo tagliarne un pezzettino.
“Certo ragazzino, ma fai attenzione a non farti male”.
“Possibile che non puoi stare fermo un attimo?” sospirò mio padre.
Non lo ascoltai e tagliai una lunga striscia rossa che mi allacciai intorno alla fronte. “Ecco, un’ultima misura ancora e.... fatto! Mia moglie le mostrerà il catalogo. Il mio consiglio è un grigio scuro, ma stoffa e colore spettano a lei. In ogni caso sono sicuro che farà un’ottima scelta. Passi verso la fine della prossima settimana, il suo magnifico cappotto la starà aspettando ansioso di essere indossato”.
Dopo un po’ la sua loquacità diventava irritante. Mio padre impiegò meno di cinque minuti per decidere la stoffa e il colore. Ringraziò e salutò la moglie del sarto, dopodiché uscimmo dirigendoci dal barbiere.
Mio padre e mio zio camminavano svelti discutendo animatamente. Li seguivo a un paio di metri, saltellando sulle punte dei piedi attento a non pestare le linee tra una pietra e l’altra del marciapiede. Iniziò a piovigginare e arrivammo dal barbiere un attimo prima che si scatenasse il diluvio. C’erano un paio di persone in attesa del loro turno e altrettante che avevano trovato un improvviso riparo dalla pioggia.
“Una mezz’oretta” rispose il barbiere a mio padre che si era informato su quanto tempo avrebbe dovuto aspettare.
“Vado. Devo comprare il pane e l’insalata prima di tornare a casa per pranzo, se vuoi continuare ad avere un fratello. La conosci tua cognata, sai com’è” disse ridendo lo zio dopo una decina di minuti. Poi, diventando improvvisamente serio, aggiunse: “Ci sentiamo. Mi raccomando, fai attenzione”.
“E a che? Tu piuttosto, occhio che non ti becchi un fulmine” gli fece eco mio padre con ironia, interrotto da un tuono.
“Ciao Guido”.
“Ciao” lo salutai senza voltarmi, intento com’ero nel raccogliere a mucchietti con i piedi le ciocche di capelli sparse sul pavimento.
Finalmente fu il turno di mio padre. Il barbiere lo fece accomodare sulla sedia, gli mise sul petto un asciugamano bianco, glielo annodò intorno al collo e iniziò a spennellargli di schiuma le guance, il mento e il collo. Prese il rasoio e con movimenti rapidi e sicuri incominciò a tagliargli la barba. Una strisciata sul viso, una sull’asciugamano appoggiato sull’avambraccio per pulire la lama. Una sul viso, una sull’asciugamano. Lo scorrere della lama affilata sulla pelle senza che si producessero tagli mi lasciava esterrefatto. Una volta terminata la barba, passò ai capelli. Le forbici nella destra, il pettine nella sinistra, movimenti secchi, repentini. Seguiva uno schema, era evidente, nessuna sforbiciata era casuale, e alla fine mio padre, guardandosi nello specchio, si disse molto soddisfatto.
“Ottimo lavoro, come al solito”.
Pagò e ce ne andammo.
Pioveva forte, il cielo era diventato improvvisamente buio. I bagliori dei lampi squarciavano l’oscurità e illuminavano le nuvole gonfie. Ad ogni rimbombo dei tuoni ero scosso da un tremito lungo tutto il corpo. Mio padre mi prese la mano.
“Vieni, stammi vicino che se no ti bagni. Occhio alle pozzanghere” e mi tirò leggermente a sé in modo che entrambi fossimo al riparo sotto l’ombrello.
Facevo fatica a mantenere il suo passo. A metà di via Cantore svoltammo in via Rosselli. Lo scrosciare incessante della pioggia non accennava a diminuire. Avevo ormai i piedi fradici e rinunciai ad evitare le pozze d’acqua, già facevo fatica a restare dietro a mio padre.
“Guarda sta arrivando il 2, dai che lo prendiamo” e accelerò ancor di più l’andatura in direzione della fermata. Stavamo per salire sul filobus quando qualcuno chiamò mio padre. A meno di due metri da noi, fermo sul marciapiede, un uomo avvolto in un impermeabile nero ci stava osservando. Mio padre lo squadrò con aria interrogativa, senza dire nulla.
“Mi segua, senza fare sciocchezze” disse mostrandogli un distintivo dei carabinieri.
Fu un attimo. Un istante che segnò il resto della mia vita. Così fulmineo che non mi resi conto di cosa stesse accadendo. Ma le tragiche immagini e la colonna sonora si impressero in modo indelebile nella mia memoria. Mio padre che mi allontana con uno spintone. La sua mano che slaccia un bottone del cappotto e ci si infila dentro. Uno sparo sordo. Il braccio teso dell’uomo con l’impermeabile nero. Il fumo denso che fuoriesce dalla canna di una pistola. Mio padre che si accascia sul marciapiede. L’acqua intorno al corpo che lentamente si tinge di rosso. Le urla delle persone presenti. L’ululato continuo e assordante della sirena dell’ambulanza. Immagini e suoni che hanno sempre avuto una duplice funzione: farmi rivivere al rallentatore la morte di mio padre e alimentare negli anni a venire un crescente desiderio di vendetta.
Un medico provò invano a rianimarlo. Quando arrivammo all’ospedale era già morto. Lo avevano ammazzato davanti ai miei occhi. A coloro che si avvicinavano per cercare di confortarmi domandavo in lacrime sempre la stessa cosa: “Perché?”. Per la prima volta nella mia vita mi sentii completamente solo. Solo a combattere contro un destino crudele. Avevo la sensazione di non meri¬tarmi ciò che mi era accaduto. Perché mia madre mi aveva abbandonato? Perché avevano sparato a mio padre? Perché gli altri bambini avevano genitori e nonni che si prendevano cura di loro e io invece non avevo nessuno? Perché?
Venni affidato nuovamente alla mia vecchia tutrice. Ma questa volta, per fortuna, la convivenza durò appena un paio di settimane. La vecchia infatti decise di mandarmi in un istituto ai Piani d’Invrea, vicino a Varazze. Fondato da un ex tenente degli alpini con lo scopo di accogliere ragazzi con una situazione famigliare difficile e permettere loro di proseguire gli studi, era passato poi sotto il controllo di una fondazione svizzera che aveva nominato un nuovo direttore, proveniente da Roma, il Dr. Tatarella. Gattasso, il fondatore, aveva il vizio di scommettere sulle corse dei cavalli e con il trascorrere degli anni si era indebitato fino al collo. Le minacce sempre più frequenti dei creditori lo avevano costretto, a malincuore, a cedere sia la proprietà che la gestione di quella che sarebbe diventata la Casa Svizzera. In realtà, l’edificio e il luogo in cui sorgeva non avevano niente a che vedere con il piccolo stato alpino. Era stato costruito in perfetto stile coloniale a due passi dal mare. Era una palazzina a tre piani dello stesso giallo di cui si tingono gli occhi in un bosco di castani al principio dell’autunno. Il piano terra, dove erano situate una grande sala da pranzo e la cucina, era circondato esternamente da un porticato formato da esili colonne di marmo. Sopra al porticato era stato ricavato un ampio terrazzo al quale si poteva accedere da tutte le camere da letto che occupavano, insieme ai bagni, l’intero secondo piano. La mansarda era utilizzata come ripostiglio. Nessuno, a parte il direttore dell’istituto, aveva il permesso di entrarvi e il fatto che l’accesso fosse sempre chiuso a chiave aveva fatto nascere leggende e miti su ciò che accadeva dietro quella pesante porta di legno. La sola minaccia di essere rinchiusi per punizione in quel luogo circondato dal mistero era più che sufficiente per evitare qualsiasi comportamento che non rispet¬tasse le regole vigenti all’interno della casa. L’arredamento della casa era semplice ma curato. Era evidente che non ci fosse spazio per il superfluo. In ciascuna stanza erano alloggiati due ragazzi. I servizi e le docce erano in comune per tutti gli inquilini, con l’esclusione del direttore che aveva una stanza con il bagno privato.
Il primo novembre la tutrice mi accompagnò all’istituto. Il mio unico bagaglio era costituito da una vecchia valigia di cuoio scuro con dentro pochi vestiti, un quadretto con una foto di mio padre, il sussidiario, lo spazzolino da denti, un camioncino di legno. Arrivati al cancello si fermò e appoggiandomi una mano sulla spalla mi ruotò verso di lei.
“Su, ora vai, il direttore ti sta aspettando. Comportati bene. Ti verrò a trovare ogni tanto”.
Attraversai il cancello e giunto di fronte al portone mi voltai un’ultima volta verso la vecchia e accennai un saluto con la mano. Poi suonai il campanello e rimasi in attesa. Ero emozionato e un brivido mi attraversò la schiena. L’uomo che mi aprì mi sorrise e l’ansia che mi aveva colto all’improvviso svanì in un istante.
“Tu devi essere Guido, vero? Vieni, entra, sei il benvenuto”.
Non ero abituato a tanta cordialità. Ma abituarsi alle cose belle è un attimo e mi sentii subito a mio agio, come se quel posto, invece che essermi ignoto, lo conoscessi da sempre.
A volte la prima impressione è quella giusta. L’istituto accoglieva ragazzi di età compresa tra gli undici e quindici anni. Data la mia situazione particolare, mi era stato concesso l’ingresso qualche mese prima che compissi l’età minima per l’ammissione. Diventai presto la mascotte dell’istituto e tutti, direttore e personale compresi, mi trattavano con un occhio di riguardo. In meno di anno recuperai il sorriso e dai miei occhi svanì il velo di malinconia che era apparso dopo la morte di mio padre. Vengo colto da un pizzico di amarezza se penso che, nonostante fosse un istituto per ragazzi cosiddetti “difficili”, mai più in futuro nel mondo “normale” mi sarebbe risultato così facile tessere buone relazioni e sin¬cere amicizie come quelle che nacquero nella Casa Svizzera.
Trascorsi i primi tre anni sentendomi a casa.
Si allacciò l’ultimo bottone della camicia, prese una cravatta dal cassetto e si fece il nodo guardandosi allo specchio. Con il palmo della mano si sistemò una ciocca ribelle. Diede un’ultima sistemata alla cravatta e rimase qualche secondo a fissare la sua immagine riflessa. Poi si volse verso di me.
“Fatti vedere”.
Mi avvicinai e restai dritto in piedi di fronte a lui, le mani lungo i fianchi, il mento leggermente sollevato. Nonostante fosse sabato mi aveva fatto indossare il vestito della domenica. I pantaloni corti beige, la camicia bianca e il gilet testa di moro. Erano già trascorsi cinque anni dall’armistizio. Nel frattempo l’Italia era diventata una Repubblica e in primavera la Democrazia Cristiana aveva vinto le prime elezioni, ma il giorno in cui era stata firmata la pace con l’Inghilterra e gli Stati Uniti era particolarmente sentito da mio padre e come ogni anno, dalla fine della guerra, si sarebbe riunito con tutti gli amici più cari. Ci teneva a fare bella figura. Non doveva apparire che stavamo attraversando un brutto momento dal punto di vista economico. Non voleva essere compatito, non voleva gli venissero offerti dei soldi. Non ne aveva mai chiesti in prestito e ne andava fiero.
“Lavati i denti e andiamo”.
Andai in bagno per eseguire quello che più che un invito era stato un ordine. Quando uscii dal bagno stava indossando il cappotto. Non faceva freddo, ma la tasca interna era un buon posto per nascondere la pistola. Sapevo che mio padre girava armato. Un giorno lo avevo sorpreso mentre riponeva la pistola tra le camicie in un cassetto. Questa non la devi toccare, mai, per nessuna ragione, mi aveva detto serio, frustrando sul nascere la mia curiosità. Uscii contento, accompagnato dal ricordo dell’anno precedente in cui la giornata era trascorsa tra i ricordi e le battute dei compagni di mio padre. Mi divertiva sentirlo chiamare con il nome di battaglia, Cesare. Non mi ero perso nemmeno mezza parola dei loro discorsi, girando la testa da una parte all’altra come se stessi assistendo alla finale del torneo di Wimbledon. Andammo al bar, dove ci stava aspettando suo fratello. Non si assomigliavano per niente. La domanda più ricorrente che veniva loro rivolta in tono scherzoso era se fossero sicuri di essere entrambi figli dello stesso padre e della stessa madre. Solitamente lo zio era molto affettuoso, generoso di buffetti e carezze sulle guance e sulla testa. Quel giorno invece, quando entrammo nel bar, non mi degnò nemmeno di uno sguardo. Era visibilmente nervoso, sembrava avesse fretta, come se avesse un appuntamento con qualcuno. Ordinarono un caffè. Mio padre si mise a sfogliare il giornale.
“Senti, vai dal barbiere prima di passare da Lollo?”.
“Sì, ma prima devo passare dal sarto, questo cappotto proprio non ce la fa più. Perché?”.
“No, niente. Magari vi accompagno, così sto con Guido”.
Ah, ma allora sa che esisto, pensai con sollievo.
“Non è necessario, ma se ti fa piacere...” disse mio padre distrattamente, continuando a leggere.
“No! Hanno arrestato Ninetto!” esclamò all’improvviso. “Ti rendi conto della situazione di merda che si è creata? Che schifo... prima eravamo gli eroi, i salvatori della patria, ora ci trattano come sovversivi. Dicono che mettiamo in pericolo la democrazia appena nata. E la stampa dà credito a qualsiasi menzogna, è incredibile. Un qualsiasi maresciallo dei carabinieri, uno che non si sogna nemmeno cosa sia lottare per la democrazia... io non sopporto la gente così, di quelli che gli va bene tutto. C’è il fascismo? Bene. Il fascismo viene sconfitto? Bene lo stesso. C’è la monarchia? Bene. L’Italia diventa una Repubblica? Bene lo stesso. Ma come cazzo fa ad andargli sempre bene tutto? Non ce l’hanno un’idea su come dovrebbero andare le cose, un’opinione su cosa è giusto e cosa no?.... Beh, uno di questi si sveglia una mattina e dice che tizio è un sovversivo e la notizia esce sui giornali. E quando esce sui giornali.... stac... hai appiccicata sulla fronte l’etichetta e togliersela diventa quasi impossibile”.
Aveva accompagnato la parola etichetta colpendosi la fronte con il palmo della mano. Continuò: “Ah, e la sai l’ultima. Girano voci che vogliano arrestare anche me, credono che sia il responsabile dell’attentato contro la caserma di Pegli. Piuttosto che farmi dei giorni di galera da innocente mi faccio ammazzare”.
E istintivamente appoggiò la mano sul cappotto, all’altezza della tasca interna.
“Dovresti invece evitare di rispondere alle ingiustizie con la violenza” lo ammonì il fratello. “Non ne vale la pena, e poi se sei innocente.....”.
“Se sei innocente sei tranquillo” lo interruppe mio padre con sarcasmo, e aggiunse, nel caso non fosse stata colta l’ironia delle sue parole: “Non gliene frega niente se sei innocente o colpevole”.
Mi stavo annoiando. Non capivo i discorsi che facevano. E poi nel bar c’era un’aria irrespirabile, una cappa di fumo denso che avrebbero dovuto mettere un cartello - se ti alzi dalla sedia e non vedi il bancone, cammina con prudenza. Fui contento così quando mio padre ripiegò il giornale, lo appoggiò sul tavolo e si alzò. Scattai dalla sedia e lo anticipai all’uscita.
La moglie del sarto ci invitò ad entrare. Offrì a mio padre e allo zio un caffè che rifiutarono educatamente.
“La ringrazio, lo abbiamo appena preso al bar”.
Il laboratorio era stato ricavato in una stanza dell’appartamento. Su un grosso tavolo di legno troneggiava la macchina da cucire. C’erano pezzi di stoffa ovunque, camicie e pantaloni ammucchiati sulle sedie e su un divano. Mi domandai come facesse a trovare le cose in mezzo a quel disordine. Il sarto ero un tipetto basso e magro che non perdeva occasione di ricordare al mondo intero quanto fosse bravo a fare il suo mestiere.
“Venga, ecco, si tolga questo cappotto sdrucito che gliene faccio uno su misura, uno che così bello non l’ha mai visto, talmente bello ed elegante che per strada la gente si volterà ad ammirarlo”.
Aiutò mio padre a togliersi il cappotto vecchio e lo gettò sopra una montagna di vestiti. Da un cassetto estrasse un metro e iniziò a misurare braccia, torace, vita e gambe di mio padre. Ripeteva ad alta voce i numeri e li annotava su un bloc notes.
“Mi creda, sarà il cappotto più bello che abbia mai avuto, le calzerà a pennello. La stoffa la sceglierà poi con mia moglie. Ma il segreto del successo sta tutto qui” e indicò il foglietto su cui aveva scritto le varie misure. “Un centimetro in più o in meno fa la differenza. Certo, poi bisogna saper rifinire le cuciture, ma delle buone misure sono come le fondamenta di una casa, reggono tutto il resto”.
Erano trascorsi almeno dieci minuti quando mio padre guardò l’ora senza dire niente, sperando che il sarto capisse che aveva fretta. Negli anni trascorsi insieme ho sempre avuto l’impressione che mio padre avesse fretta, che non potesse mai fermarsi per rilassarsi un po’. Aveva sempre qualcosa da fare e si lamentava in continuazione che per lui il tempo scorreva troppo velocemente. Quella mattina stranamente anche lo zio era teso e passeggiava avanti e indietro per la stanza, fermandosi di
tanto in tanto per osservare prima il sarto, poi il fratello. Gli aveva detto che lo accompagnava per stare insieme a me, ma fino a quel momento non mi aveva rivolto la parola nemmeno una volta. Indifferente alla sua indifferenza, girovagavo incantato per la stanza toccando con curiosità i vari tessuti. Quel luogo caotico e colorato mi intrigava. Afferrai un paio di forbici che spuntavano da sotto un cumulo di stoffa rossa e chiesi se potevo tagliarne un pezzettino.
“Certo ragazzino, ma fai attenzione a non farti male”.
“Possibile che non puoi stare fermo un attimo?” sospirò mio padre.
Non lo ascoltai e tagliai una lunga striscia rossa che mi allacciai intorno alla fronte. “Ecco, un’ultima misura ancora e.... fatto! Mia moglie le mostrerà il catalogo. Il mio consiglio è un grigio scuro, ma stoffa e colore spettano a lei. In ogni caso sono sicuro che farà un’ottima scelta. Passi verso la fine della prossima settimana, il suo magnifico cappotto la starà aspettando ansioso di essere indossato”.
Dopo un po’ la sua loquacità diventava irritante. Mio padre impiegò meno di cinque minuti per decidere la stoffa e il colore. Ringraziò e salutò la moglie del sarto, dopodiché uscimmo dirigendoci dal barbiere.
Mio padre e mio zio camminavano svelti discutendo animatamente. Li seguivo a un paio di metri, saltellando sulle punte dei piedi attento a non pestare le linee tra una pietra e l’altra del marciapiede. Iniziò a piovigginare e arrivammo dal barbiere un attimo prima che si scatenasse il diluvio. C’erano un paio di persone in attesa del loro turno e altrettante che avevano trovato un improvviso riparo dalla pioggia.
“Una mezz’oretta” rispose il barbiere a mio padre che si era informato su quanto tempo avrebbe dovuto aspettare.
“Vado. Devo comprare il pane e l’insalata prima di tornare a casa per pranzo, se vuoi continuare ad avere un fratello. La conosci tua cognata, sai com’è” disse ridendo lo zio dopo una decina di minuti. Poi, diventando improvvisamente serio, aggiunse: “Ci sentiamo. Mi raccomando, fai attenzione”.
“E a che? Tu piuttosto, occhio che non ti becchi un fulmine” gli fece eco mio padre con ironia, interrotto da un tuono.
“Ciao Guido”.
“Ciao” lo salutai senza voltarmi, intento com’ero nel raccogliere a mucchietti con i piedi le ciocche di capelli sparse sul pavimento.
Finalmente fu il turno di mio padre. Il barbiere lo fece accomodare sulla sedia, gli mise sul petto un asciugamano bianco, glielo annodò intorno al collo e iniziò a spennellargli di schiuma le guance, il mento e il collo. Prese il rasoio e con movimenti rapidi e sicuri incominciò a tagliargli la barba. Una strisciata sul viso, una sull’asciugamano appoggiato sull’avambraccio per pulire la lama. Una sul viso, una sull’asciugamano. Lo scorrere della lama affilata sulla pelle senza che si producessero tagli mi lasciava esterrefatto. Una volta terminata la barba, passò ai capelli. Le forbici nella destra, il pettine nella sinistra, movimenti secchi, repentini. Seguiva uno schema, era evidente, nessuna sforbiciata era casuale, e alla fine mio padre, guardandosi nello specchio, si disse molto soddisfatto.
“Ottimo lavoro, come al solito”.
Pagò e ce ne andammo.
Pioveva forte, il cielo era diventato improvvisamente buio. I bagliori dei lampi squarciavano l’oscurità e illuminavano le nuvole gonfie. Ad ogni rimbombo dei tuoni ero scosso da un tremito lungo tutto il corpo. Mio padre mi prese la mano.
“Vieni, stammi vicino che se no ti bagni. Occhio alle pozzanghere” e mi tirò leggermente a sé in modo che entrambi fossimo al riparo sotto l’ombrello.
Facevo fatica a mantenere il suo passo. A metà di via Cantore svoltammo in via Rosselli. Lo scrosciare incessante della pioggia non accennava a diminuire. Avevo ormai i piedi fradici e rinunciai ad evitare le pozze d’acqua, già facevo fatica a restare dietro a mio padre.
“Guarda sta arrivando il 2, dai che lo prendiamo” e accelerò ancor di più l’andatura in direzione della fermata. Stavamo per salire sul filobus quando qualcuno chiamò mio padre. A meno di due metri da noi, fermo sul marciapiede, un uomo avvolto in un impermeabile nero ci stava osservando. Mio padre lo squadrò con aria interrogativa, senza dire nulla.
“Mi segua, senza fare sciocchezze” disse mostrandogli un distintivo dei carabinieri.
Fu un attimo. Un istante che segnò il resto della mia vita. Così fulmineo che non mi resi conto di cosa stesse accadendo. Ma le tragiche immagini e la colonna sonora si impressero in modo indelebile nella mia memoria. Mio padre che mi allontana con uno spintone. La sua mano che slaccia un bottone del cappotto e ci si infila dentro. Uno sparo sordo. Il braccio teso dell’uomo con l’impermeabile nero. Il fumo denso che fuoriesce dalla canna di una pistola. Mio padre che si accascia sul marciapiede. L’acqua intorno al corpo che lentamente si tinge di rosso. Le urla delle persone presenti. L’ululato continuo e assordante della sirena dell’ambulanza. Immagini e suoni che hanno sempre avuto una duplice funzione: farmi rivivere al rallentatore la morte di mio padre e alimentare negli anni a venire un crescente desiderio di vendetta.
Un medico provò invano a rianimarlo. Quando arrivammo all’ospedale era già morto. Lo avevano ammazzato davanti ai miei occhi. A coloro che si avvicinavano per cercare di confortarmi domandavo in lacrime sempre la stessa cosa: “Perché?”. Per la prima volta nella mia vita mi sentii completamente solo. Solo a combattere contro un destino crudele. Avevo la sensazione di non meri¬tarmi ciò che mi era accaduto. Perché mia madre mi aveva abbandonato? Perché avevano sparato a mio padre? Perché gli altri bambini avevano genitori e nonni che si prendevano cura di loro e io invece non avevo nessuno? Perché?
Venni affidato nuovamente alla mia vecchia tutrice. Ma questa volta, per fortuna, la convivenza durò appena un paio di settimane. La vecchia infatti decise di mandarmi in un istituto ai Piani d’Invrea, vicino a Varazze. Fondato da un ex tenente degli alpini con lo scopo di accogliere ragazzi con una situazione famigliare difficile e permettere loro di proseguire gli studi, era passato poi sotto il controllo di una fondazione svizzera che aveva nominato un nuovo direttore, proveniente da Roma, il Dr. Tatarella. Gattasso, il fondatore, aveva il vizio di scommettere sulle corse dei cavalli e con il trascorrere degli anni si era indebitato fino al collo. Le minacce sempre più frequenti dei creditori lo avevano costretto, a malincuore, a cedere sia la proprietà che la gestione di quella che sarebbe diventata la Casa Svizzera. In realtà, l’edificio e il luogo in cui sorgeva non avevano niente a che vedere con il piccolo stato alpino. Era stato costruito in perfetto stile coloniale a due passi dal mare. Era una palazzina a tre piani dello stesso giallo di cui si tingono gli occhi in un bosco di castani al principio dell’autunno. Il piano terra, dove erano situate una grande sala da pranzo e la cucina, era circondato esternamente da un porticato formato da esili colonne di marmo. Sopra al porticato era stato ricavato un ampio terrazzo al quale si poteva accedere da tutte le camere da letto che occupavano, insieme ai bagni, l’intero secondo piano. La mansarda era utilizzata come ripostiglio. Nessuno, a parte il direttore dell’istituto, aveva il permesso di entrarvi e il fatto che l’accesso fosse sempre chiuso a chiave aveva fatto nascere leggende e miti su ciò che accadeva dietro quella pesante porta di legno. La sola minaccia di essere rinchiusi per punizione in quel luogo circondato dal mistero era più che sufficiente per evitare qualsiasi comportamento che non rispet¬tasse le regole vigenti all’interno della casa. L’arredamento della casa era semplice ma curato. Era evidente che non ci fosse spazio per il superfluo. In ciascuna stanza erano alloggiati due ragazzi. I servizi e le docce erano in comune per tutti gli inquilini, con l’esclusione del direttore che aveva una stanza con il bagno privato.
Il primo novembre la tutrice mi accompagnò all’istituto. Il mio unico bagaglio era costituito da una vecchia valigia di cuoio scuro con dentro pochi vestiti, un quadretto con una foto di mio padre, il sussidiario, lo spazzolino da denti, un camioncino di legno. Arrivati al cancello si fermò e appoggiandomi una mano sulla spalla mi ruotò verso di lei.
“Su, ora vai, il direttore ti sta aspettando. Comportati bene. Ti verrò a trovare ogni tanto”.
Attraversai il cancello e giunto di fronte al portone mi voltai un’ultima volta verso la vecchia e accennai un saluto con la mano. Poi suonai il campanello e rimasi in attesa. Ero emozionato e un brivido mi attraversò la schiena. L’uomo che mi aprì mi sorrise e l’ansia che mi aveva colto all’improvviso svanì in un istante.
“Tu devi essere Guido, vero? Vieni, entra, sei il benvenuto”.
Non ero abituato a tanta cordialità. Ma abituarsi alle cose belle è un attimo e mi sentii subito a mio agio, come se quel posto, invece che essermi ignoto, lo conoscessi da sempre.
A volte la prima impressione è quella giusta. L’istituto accoglieva ragazzi di età compresa tra gli undici e quindici anni. Data la mia situazione particolare, mi era stato concesso l’ingresso qualche mese prima che compissi l’età minima per l’ammissione. Diventai presto la mascotte dell’istituto e tutti, direttore e personale compresi, mi trattavano con un occhio di riguardo. In meno di anno recuperai il sorriso e dai miei occhi svanì il velo di malinconia che era apparso dopo la morte di mio padre. Vengo colto da un pizzico di amarezza se penso che, nonostante fosse un istituto per ragazzi cosiddetti “difficili”, mai più in futuro nel mondo “normale” mi sarebbe risultato così facile tessere buone relazioni e sin¬cere amicizie come quelle che nacquero nella Casa Svizzera.
Trascorsi i primi tre anni sentendomi a casa.
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