Il baco e la farfalla (capitolo 5)
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Il baco e la farfalla (capitolo 5)
Aprile 1952
La signora Milton mi stava aspettando in cortile. Ero in ritardo. Mi guardai allo specchio. Mi sfiorai con l’indice il mento sul quale erano spuntati tre peli sottili. Il vestito che mi aveva regalato mi calzava a pennello. Un vestito così non me lo sarei mai potuto permettere.
Dovevo molto a quella donna, ne ero consapevole. Non tanto per il vestito. Le ero riconoscente per l’affetto che provava per me. Nonostante ci conoscessimo solamente da quattro mesi, mi trattava come un figlio. Forse vedeva in me quello che non aveva mai potuto avere per una malformazione congenita alle ovaie. E in quel momento non potevo immaginare nemmeno lontanamente l’importanza che avrebbe avuto parecchi anni dopo quando, con un foglietto su cui erano annotati un nome e un indirizzo, mi avrebbe offerto una possibilità di riscatto senza volere nulla in cambio.
Scesi le scale di corsa. Era una splendida giornata.
“Arriveremo tardi” mi rimproverò bonariamente.
“Sicuro che Dio non se ne va” scherzai strizzando un occhio.
Era stata lei a convincermi a fare la cresima. L’anno precedente, quando avrei dovuto farla insieme ai miei coetanei, avevo rinunciato. Non credevo in Dio, tanto meno in uno buono e giusto. La sventura che senza tregua si era abbattuta su di me fino allora mi sembrava tutto fuorché provvida. Ma quell’eccentrica scrittrice americana era riuscita a farmi credere possibile un futuro diverso e quando si era offerta di farmi da madrina non avevo saputo dirle di no.
La chiesa non era lontana, meno di dieci minuti a piedi. Ci avviammo di buon passo, ma ogni decina di metri ero costretto a rallentare per aspettare la signora Milton che zampettava goffa sui tacchi facendo del suo meglio per non rimanere indietro.
“Dopo essere stata con così tanti uomini, ha mai pensato di come sarebbe vivere da sola? In fondo i soldi non le mancano”.
“Non è solo una questione di soldi, tesoro mio. La società impone come modello la coppia. Una persona sola non sarebbe né capita né accettata e verrebbe in breve tempo marginalizzata. E per di più donna! Ma lo sai che nel paese di Charles, mio marito, le donne non possono nemmeno votare? E poi con lui sto bene, sono felice. La condivisione esalta le emozioni belle e attenua quelle brutte. L’uomo non è fatto per vivere da solo, è un animale che vive in branco. Gli indios delle Ande raccontano che se a un condor strappi gli artigli e il becco, il condor non è più un condor. All’uomo puoi strappare le mani, i piedi, puoi strappare perfino gli occhi, la lingua, e l’uomo rimane sempre un uomo. L’uomo non è più uomo quando è solo”.
La fissai senza smettere di camminare. Pensai che forse, quando era morto mio padre, avevo smesso di essere uomo, ma ora per fortuna quella sensazione soffocante di isolamento mi aveva abbandonato. Il ricordo di mio padre era comunque vivo e la solitudine, attraverso un processo lento ma inesorabile, si stava trasformando col trascorrere del tempo in rabbia. Una rabbia che non riuscivo ancora ad indirizzare verso un obiettivo ben definito, ma che sentivo dentro, feconda, pronta a esplodere.
“Da quando la conosco sono meno solo” commentai “e anche gli altri ragazzi dell’istituto. Qualche giorno fa, durante il pranzo, ho ascoltato per caso una sua conversazione con il direttore. Il suo aiuto economico è importante, ma non lo sapevamo e non potevamo manifestarle la nostra gratitudine. Sa una cosa, signora Milton? Ci conosciamo solamente da quatto mesi e sento che lei è la persona più importante della mia vita, se si esclude mio padre”.
Mi sorrise lusingata.
“Ciò che conta non è il tempo, ma l’intensità con cui lo si vive”. Rimasi in silenzio cercando di cogliere il senso più profondo delle sue parole.
Di fronte all’entrata della chiesa erano radunate decine di persone. Ogni genitore era intento a mostrare con orgoglio il proprio figlio a parenti e amici. Tutti si prodigavano in ossequiosi complimenti, troppo lusinghieri per poter essere sinceri.
Non mi andava di intrattenermi in mezzo a quel capannello di gente e feci segno alla signora Milton di seguirmi all’interno della chiesa. Percorremmo quasi interamente la navata laterale e ci sedemmo su una delle prime panche, sul lato più esterno. Mi piaceva il silenzio della chiesa, stimolava la meditazione. Durò poco, qualche minuto appena, quando un vociare caotico riempì l’interno dell’edificio e figli, genitori, nonni e zii si sistemarono ognuno al proprio posto. Quando tornò il silenzio, la cerimonia ebbe inizio. Dopo un tempo indefinito mi accorsi che non stavo prestando alcuna attenzione alle parole del parroco e che la mia testa era occupata interamente dalla partita a pallone che avrei giocato quel pomeriggio con i ragazzi dell’istituto. Provai a concentrarmi nuovamente sulla funzione religiosa. Durò un attimo. Osservai i genitori presenti, tutti intenti a coccolarsi con lo sguardo i propri figli. Mi estraniai nuovamente, la mia mente iniziò a vagare nel passato. Alcune lacrime sgorgarono dalla nostalgia di mio padre e mi rigarono il viso. Tirai su col naso. La signora Milton si accorse del mio pianto e mi porse un fazzoletto. Mi vergognavo a piangere in quel posto, dove tutti invece erano felici. Non avrei dovuto accettare l’offerta della signora Milton di farmi da madrina. Quel mattino avrei fatto meglio a fare dell’altro. Pensai a cosa avrebbe potuto dire il parroco per consolarmi per l’assenza di mio padre quel giorno, e per tutti quelli che sarebbero seguiti. Nulla. Non avrebbe potuto dire nulla che alleviasse il mio dolore. Giurai a me stesso che quella era l’ultima volta che avrei assistito a una funzione religiosa. Per fortuna la predica fu breve e la cerimonia durò meno del previsto. All’uscita informai la signora Milton che non sarei tornato all’istituto per l’ora di pranzo e mi diressi verso la spiaggia. Iniziai a passeggiare in riva al mare, scrutando l’orizzonte, respirando l’aria salata e ascoltando le onde accarezzare la battigia. Volsi lo sguardo a oriente. Il promontorio di Portofino emergeva incastrato tra mare e cielo. Ero troppo lontano per vederlo, ma sapevo che in fondo alle sue pendici trovava riparo Camogli. Mio padre un giorno, mostrandomi una foto di mia madre, mi aveva detto che era vissuta laggiù. Chissà dov’era ora. Chissà se ancora era o non era più. Per caso, quasi senza accorgermene, mi ritrovai per la prima volta a desiderare di avere sue notizie.
Ritornai all’istituto nel primo pomeriggio, appena in tempo per la partita con gli altri ragazzi. Giocavo in porta. Un po’ perché mi piaceva, un po’ perché nessuno voleva ricoprire il ruolo di portiere e colui che si sacrificava era almeno sicuro di giocare l’intera partita, essendo escluso dall’odiato sistema dei cambi: ogni gol, fatto o subito, a rotazione un giocatore usciva per lasciare spazio a un compagno della propria squadra. La speranza che segretamente covavo era che la partita terminasse in parità e venisse decisa dalla lotteria dei calci di rigore. In quel momento, quando le sorti dell’intera squadra dipendevano esclusivamente da me, i miei compagni iniziavano ad incitarmi, diventavo improvvisamente protagonista, un effetto elettrizzante, sentivo scorrere l’adrenalina per tutto il corpo. La gloria era a portata di mano. Un rigore parato avrebbe spalancato le porte del paradiso. Alcune partite, come quella che stavamo giocando quel pomeriggio, erano terribilmente noiose. La disparità dei valori in campo faceva sì che il gioco si sviluppasse prevalentemente nella metà campo avversaria e toccavo la palla non più di quattro o cinque volte in tutto l’incontro. Relegato ai margini del gioco, venni assalito nuovamente dai pensieri del mattino. La curiosità per la sorte di mia madre stava aprendo una breccia nel muro d’odio che avevo innalzato fino allora. Sarebbe stato meglio se durante quegli anni fossi riuscito ad essere indifferente a mia madre invece di provare rancore nei suoi confronti. L’indifferenza è l’anticamera dell’oblio, l’odio invece alimenta il ricordo. Quando ero bambino si trattava di immagini sfocate che si basavano sulle poche cose che mi aveva raccontato mio padre. Visioni che provocavano smarrimento. Col tempo, la fantasia era riuscita a renderle nitide. Situazioni inventate così ben definite e particolareggiate da apparire reali. Ora la cortina che mi separava da mia madre non sembrava più insuperabile. Era forse giunto il momento di fare i conti col mio passato. Raccogliere i pezzi, riempire gli spazi vuoti, ricostruirlo, per poter avere delle fondamenta un po’ più solide su cui provare a costruire il mio futuro.
Un urlo improvviso interruppe i miei pensieri.
“Gooooool”.
“Cazzo Guido! Era un tiro che avrebbe parato anche mia nonna su una sedia a rotelle!”.
Mi chinai a raccogliere la palla in fondo alla rete.
“Gigi, posso dirti una cosa?”.
Sollevò leggermente il mento, aspettando che proseguissi.
Calciai con forza la sfera indirizzandola verso il centro del campo, feci due passi verso il mio amico e piantai i miei occhi nei suoi.
“Fanculo te e tua nonna”.
Nei mesi successivi il desiderio di conoscere mia madre si fece sempre più forte.
Un bosco di castani , mi incammino lungo il sentiero che si perde tra gli alberi, sono solo, i raggi del sole spezzano l’oscurità, odo il cinguettio di uccelli che invano cerco di scorgere tra i rami ricoperti di foglie. Ora non sono più solo, una bambina cammina al mio fianco, mi porge la mano, mi invita a seguirla. La seguo. Non si sentono più gli uccelli. Regna il silenzio. Usciamo dal bosco. Il silenzio è infranto. C’è una festa. Intorno a un grande tavolo di legno, imbandito, persone che ridono, bevono, mangiano e cantano. È un matrimonio. Guardo la bambina con aria interrogativa. Sta indicando gli sposi. Li osservo più attentamente. Li riconosco. Sono mio padre e mia madre.
Mi svegliai sudato. Fuori era chiaro. Guardai l’ora. Anche quella mattina avrei fatto tardi a scuola. Non mi affannai più di tanto. Erano gli ultimi giorni e gli insegnanti erano più comprensivi. Si respirava già un’aria di vacanza. Per me non sarebbe stata un’estate come le altre. Ne avevo parlato con la signora Milton, ricevendo appoggio e comprensione. Avevo deciso. Finita la scuola sarei partito alla ricerca di mia madre.
Dovevo molto a quella donna, ne ero consapevole. Non tanto per il vestito. Le ero riconoscente per l’affetto che provava per me. Nonostante ci conoscessimo solamente da quattro mesi, mi trattava come un figlio. Forse vedeva in me quello che non aveva mai potuto avere per una malformazione congenita alle ovaie. E in quel momento non potevo immaginare nemmeno lontanamente l’importanza che avrebbe avuto parecchi anni dopo quando, con un foglietto su cui erano annotati un nome e un indirizzo, mi avrebbe offerto una possibilità di riscatto senza volere nulla in cambio.
Scesi le scale di corsa. Era una splendida giornata.
“Arriveremo tardi” mi rimproverò bonariamente.
“Sicuro che Dio non se ne va” scherzai strizzando un occhio.
Era stata lei a convincermi a fare la cresima. L’anno precedente, quando avrei dovuto farla insieme ai miei coetanei, avevo rinunciato. Non credevo in Dio, tanto meno in uno buono e giusto. La sventura che senza tregua si era abbattuta su di me fino allora mi sembrava tutto fuorché provvida. Ma quell’eccentrica scrittrice americana era riuscita a farmi credere possibile un futuro diverso e quando si era offerta di farmi da madrina non avevo saputo dirle di no.
La chiesa non era lontana, meno di dieci minuti a piedi. Ci avviammo di buon passo, ma ogni decina di metri ero costretto a rallentare per aspettare la signora Milton che zampettava goffa sui tacchi facendo del suo meglio per non rimanere indietro.
“Dopo essere stata con così tanti uomini, ha mai pensato di come sarebbe vivere da sola? In fondo i soldi non le mancano”.
“Non è solo una questione di soldi, tesoro mio. La società impone come modello la coppia. Una persona sola non sarebbe né capita né accettata e verrebbe in breve tempo marginalizzata. E per di più donna! Ma lo sai che nel paese di Charles, mio marito, le donne non possono nemmeno votare? E poi con lui sto bene, sono felice. La condivisione esalta le emozioni belle e attenua quelle brutte. L’uomo non è fatto per vivere da solo, è un animale che vive in branco. Gli indios delle Ande raccontano che se a un condor strappi gli artigli e il becco, il condor non è più un condor. All’uomo puoi strappare le mani, i piedi, puoi strappare perfino gli occhi, la lingua, e l’uomo rimane sempre un uomo. L’uomo non è più uomo quando è solo”.
La fissai senza smettere di camminare. Pensai che forse, quando era morto mio padre, avevo smesso di essere uomo, ma ora per fortuna quella sensazione soffocante di isolamento mi aveva abbandonato. Il ricordo di mio padre era comunque vivo e la solitudine, attraverso un processo lento ma inesorabile, si stava trasformando col trascorrere del tempo in rabbia. Una rabbia che non riuscivo ancora ad indirizzare verso un obiettivo ben definito, ma che sentivo dentro, feconda, pronta a esplodere.
“Da quando la conosco sono meno solo” commentai “e anche gli altri ragazzi dell’istituto. Qualche giorno fa, durante il pranzo, ho ascoltato per caso una sua conversazione con il direttore. Il suo aiuto economico è importante, ma non lo sapevamo e non potevamo manifestarle la nostra gratitudine. Sa una cosa, signora Milton? Ci conosciamo solamente da quatto mesi e sento che lei è la persona più importante della mia vita, se si esclude mio padre”.
Mi sorrise lusingata.
“Ciò che conta non è il tempo, ma l’intensità con cui lo si vive”. Rimasi in silenzio cercando di cogliere il senso più profondo delle sue parole.
Di fronte all’entrata della chiesa erano radunate decine di persone. Ogni genitore era intento a mostrare con orgoglio il proprio figlio a parenti e amici. Tutti si prodigavano in ossequiosi complimenti, troppo lusinghieri per poter essere sinceri.
Non mi andava di intrattenermi in mezzo a quel capannello di gente e feci segno alla signora Milton di seguirmi all’interno della chiesa. Percorremmo quasi interamente la navata laterale e ci sedemmo su una delle prime panche, sul lato più esterno. Mi piaceva il silenzio della chiesa, stimolava la meditazione. Durò poco, qualche minuto appena, quando un vociare caotico riempì l’interno dell’edificio e figli, genitori, nonni e zii si sistemarono ognuno al proprio posto. Quando tornò il silenzio, la cerimonia ebbe inizio. Dopo un tempo indefinito mi accorsi che non stavo prestando alcuna attenzione alle parole del parroco e che la mia testa era occupata interamente dalla partita a pallone che avrei giocato quel pomeriggio con i ragazzi dell’istituto. Provai a concentrarmi nuovamente sulla funzione religiosa. Durò un attimo. Osservai i genitori presenti, tutti intenti a coccolarsi con lo sguardo i propri figli. Mi estraniai nuovamente, la mia mente iniziò a vagare nel passato. Alcune lacrime sgorgarono dalla nostalgia di mio padre e mi rigarono il viso. Tirai su col naso. La signora Milton si accorse del mio pianto e mi porse un fazzoletto. Mi vergognavo a piangere in quel posto, dove tutti invece erano felici. Non avrei dovuto accettare l’offerta della signora Milton di farmi da madrina. Quel mattino avrei fatto meglio a fare dell’altro. Pensai a cosa avrebbe potuto dire il parroco per consolarmi per l’assenza di mio padre quel giorno, e per tutti quelli che sarebbero seguiti. Nulla. Non avrebbe potuto dire nulla che alleviasse il mio dolore. Giurai a me stesso che quella era l’ultima volta che avrei assistito a una funzione religiosa. Per fortuna la predica fu breve e la cerimonia durò meno del previsto. All’uscita informai la signora Milton che non sarei tornato all’istituto per l’ora di pranzo e mi diressi verso la spiaggia. Iniziai a passeggiare in riva al mare, scrutando l’orizzonte, respirando l’aria salata e ascoltando le onde accarezzare la battigia. Volsi lo sguardo a oriente. Il promontorio di Portofino emergeva incastrato tra mare e cielo. Ero troppo lontano per vederlo, ma sapevo che in fondo alle sue pendici trovava riparo Camogli. Mio padre un giorno, mostrandomi una foto di mia madre, mi aveva detto che era vissuta laggiù. Chissà dov’era ora. Chissà se ancora era o non era più. Per caso, quasi senza accorgermene, mi ritrovai per la prima volta a desiderare di avere sue notizie.
Ritornai all’istituto nel primo pomeriggio, appena in tempo per la partita con gli altri ragazzi. Giocavo in porta. Un po’ perché mi piaceva, un po’ perché nessuno voleva ricoprire il ruolo di portiere e colui che si sacrificava era almeno sicuro di giocare l’intera partita, essendo escluso dall’odiato sistema dei cambi: ogni gol, fatto o subito, a rotazione un giocatore usciva per lasciare spazio a un compagno della propria squadra. La speranza che segretamente covavo era che la partita terminasse in parità e venisse decisa dalla lotteria dei calci di rigore. In quel momento, quando le sorti dell’intera squadra dipendevano esclusivamente da me, i miei compagni iniziavano ad incitarmi, diventavo improvvisamente protagonista, un effetto elettrizzante, sentivo scorrere l’adrenalina per tutto il corpo. La gloria era a portata di mano. Un rigore parato avrebbe spalancato le porte del paradiso. Alcune partite, come quella che stavamo giocando quel pomeriggio, erano terribilmente noiose. La disparità dei valori in campo faceva sì che il gioco si sviluppasse prevalentemente nella metà campo avversaria e toccavo la palla non più di quattro o cinque volte in tutto l’incontro. Relegato ai margini del gioco, venni assalito nuovamente dai pensieri del mattino. La curiosità per la sorte di mia madre stava aprendo una breccia nel muro d’odio che avevo innalzato fino allora. Sarebbe stato meglio se durante quegli anni fossi riuscito ad essere indifferente a mia madre invece di provare rancore nei suoi confronti. L’indifferenza è l’anticamera dell’oblio, l’odio invece alimenta il ricordo. Quando ero bambino si trattava di immagini sfocate che si basavano sulle poche cose che mi aveva raccontato mio padre. Visioni che provocavano smarrimento. Col tempo, la fantasia era riuscita a renderle nitide. Situazioni inventate così ben definite e particolareggiate da apparire reali. Ora la cortina che mi separava da mia madre non sembrava più insuperabile. Era forse giunto il momento di fare i conti col mio passato. Raccogliere i pezzi, riempire gli spazi vuoti, ricostruirlo, per poter avere delle fondamenta un po’ più solide su cui provare a costruire il mio futuro.
Un urlo improvviso interruppe i miei pensieri.
“Gooooool”.
“Cazzo Guido! Era un tiro che avrebbe parato anche mia nonna su una sedia a rotelle!”.
Mi chinai a raccogliere la palla in fondo alla rete.
“Gigi, posso dirti una cosa?”.
Sollevò leggermente il mento, aspettando che proseguissi.
Calciai con forza la sfera indirizzandola verso il centro del campo, feci due passi verso il mio amico e piantai i miei occhi nei suoi.
“Fanculo te e tua nonna”.
Nei mesi successivi il desiderio di conoscere mia madre si fece sempre più forte.
Un bosco di castani , mi incammino lungo il sentiero che si perde tra gli alberi, sono solo, i raggi del sole spezzano l’oscurità, odo il cinguettio di uccelli che invano cerco di scorgere tra i rami ricoperti di foglie. Ora non sono più solo, una bambina cammina al mio fianco, mi porge la mano, mi invita a seguirla. La seguo. Non si sentono più gli uccelli. Regna il silenzio. Usciamo dal bosco. Il silenzio è infranto. C’è una festa. Intorno a un grande tavolo di legno, imbandito, persone che ridono, bevono, mangiano e cantano. È un matrimonio. Guardo la bambina con aria interrogativa. Sta indicando gli sposi. Li osservo più attentamente. Li riconosco. Sono mio padre e mia madre.
Mi svegliai sudato. Fuori era chiaro. Guardai l’ora. Anche quella mattina avrei fatto tardi a scuola. Non mi affannai più di tanto. Erano gli ultimi giorni e gli insegnanti erano più comprensivi. Si respirava già un’aria di vacanza. Per me non sarebbe stata un’estate come le altre. Ne avevo parlato con la signora Milton, ricevendo appoggio e comprensione. Avevo deciso. Finita la scuola sarei partito alla ricerca di mia madre.
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