Il baco e la farfalla (capitolo 14)
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Il baco e la farfalla (capitolo 14)
Marzo 1957
“Ahhii”.
Una fitta acuta e secca. Osservai il sangue sgorgare dal polpastrello dell’indice della mano sinistra.
“Merda”.
Ormai erano un paio d’anni che mi facevo la barba, eppure ogni volta che cambiavo la lama del rasoio rischiavo ancora di tagliarmi. Immersi il dito nel lavandino pieno d’acqua. Una macchia rossa, informe, iniziò ad espandersi. La fissai per pochi secondi. Il sangue e l’acqua mi catapultarono indietro nel tempo e lugubri immagini affiorarono sulla superficie. Spaventato, ritirai di scatto la mano. Tolsi il tappo e feci defluire l’acqua. Il lavandino vuoto mi tranquillizzò. Restai a fissarlo per un po’, inebetito.
Poi alzai lo sguardo e lo specchio riflesse un viso tirato, stanco. Ero provato dai mesi trascorsi in balìa dei capricci del tempo. Per fortuna anche quell’inverno era finito. Rabbrividivo ancora al pensiero delle fredde giornate passate sulle impalcature, più preoccupato di difendermi, invano, dalle intemperie che di rifare, con cura, l’intonaco delle facciate.
Con Elisa, nonostante i buoni propositi, non ci eravamo più incontrati. Non era dovuto a una ragione precisa, semplicemente lei non era più venuta a Camogli ed io non mi ero mai deciso ad andare a trovarla a Genova, per il timore di essere accolto da un’atmosfera ostile. Il calore del nostro incontro si era dissipato gradualmente con la fine dell’autunno, assorbito interamente dalle rigide notti invernali.
Mi ero così ritrovato, come in passato, a combattere solo contro i miei incubi che ripresero a manifestarsi con sempre maggior frequenza ogni volta che mi addormentavo.
Una notte, una delle tante, mi svegliai urlando. Provai inutilmente a riprendere il sonno. Avevo ormai perso il conto delle notti in bianco. Mi alzai esasperato e presi a girovagare per la stanza, in trance. All’improvviso, folgorato da un lampo di folle lucidità, decisi che era giunto il momento di mettere fine a quella vita di inferno. La soluzione che mi si materializzò in testa fu la stessa di sempre. L’idea mi sconvolgeva, eppure per quanto mi arrovellassi alla ricerca di possibili alternative, tra tutti i miei pensieri ne emergeva sempre uno, il solito, tragico e irreversibile. Un brivido mi scosse lungo tutto il corpo. Incominciai a tremare. Improvvisamente mi sentii debole, come una foglia ingiallita che aspetta rassegnata un soffio di vento più forte per abbandonarsi finalmente al proprio destino. Mi sedetti sul letto per paura di cadere. La nebbia che mi appannava la vista si diradò poco a poco e una volta tornato lucido pensai che in fondo non mi serviva molto, solamente una pistola. Ma prima c’era un’altra cosa che dovevo fare, avevo bisogno di parlare con mio zio.
Nei giorni successivi, quella che sembrava già una decisione presa venne messa nuovamente in discussione da un esercito agguerrito di dubbi e patemi. Mi domandai infinite volte se ero pronto ad una scelta così definitiva, se fosse giusto per una persona giovane come me compiere un gesto così cruento e fatale. Restai sospeso nell’incertezza altri quattro mesi, un tempo che, a seconda del mio umore, mi parve un attimo o un’eternità.
Una fitta acuta e secca. Osservai il sangue sgorgare dal polpastrello dell’indice della mano sinistra.
“Merda”.
Ormai erano un paio d’anni che mi facevo la barba, eppure ogni volta che cambiavo la lama del rasoio rischiavo ancora di tagliarmi. Immersi il dito nel lavandino pieno d’acqua. Una macchia rossa, informe, iniziò ad espandersi. La fissai per pochi secondi. Il sangue e l’acqua mi catapultarono indietro nel tempo e lugubri immagini affiorarono sulla superficie. Spaventato, ritirai di scatto la mano. Tolsi il tappo e feci defluire l’acqua. Il lavandino vuoto mi tranquillizzò. Restai a fissarlo per un po’, inebetito.
Poi alzai lo sguardo e lo specchio riflesse un viso tirato, stanco. Ero provato dai mesi trascorsi in balìa dei capricci del tempo. Per fortuna anche quell’inverno era finito. Rabbrividivo ancora al pensiero delle fredde giornate passate sulle impalcature, più preoccupato di difendermi, invano, dalle intemperie che di rifare, con cura, l’intonaco delle facciate.
Con Elisa, nonostante i buoni propositi, non ci eravamo più incontrati. Non era dovuto a una ragione precisa, semplicemente lei non era più venuta a Camogli ed io non mi ero mai deciso ad andare a trovarla a Genova, per il timore di essere accolto da un’atmosfera ostile. Il calore del nostro incontro si era dissipato gradualmente con la fine dell’autunno, assorbito interamente dalle rigide notti invernali.
Mi ero così ritrovato, come in passato, a combattere solo contro i miei incubi che ripresero a manifestarsi con sempre maggior frequenza ogni volta che mi addormentavo.
Una notte, una delle tante, mi svegliai urlando. Provai inutilmente a riprendere il sonno. Avevo ormai perso il conto delle notti in bianco. Mi alzai esasperato e presi a girovagare per la stanza, in trance. All’improvviso, folgorato da un lampo di folle lucidità, decisi che era giunto il momento di mettere fine a quella vita di inferno. La soluzione che mi si materializzò in testa fu la stessa di sempre. L’idea mi sconvolgeva, eppure per quanto mi arrovellassi alla ricerca di possibili alternative, tra tutti i miei pensieri ne emergeva sempre uno, il solito, tragico e irreversibile. Un brivido mi scosse lungo tutto il corpo. Incominciai a tremare. Improvvisamente mi sentii debole, come una foglia ingiallita che aspetta rassegnata un soffio di vento più forte per abbandonarsi finalmente al proprio destino. Mi sedetti sul letto per paura di cadere. La nebbia che mi appannava la vista si diradò poco a poco e una volta tornato lucido pensai che in fondo non mi serviva molto, solamente una pistola. Ma prima c’era un’altra cosa che dovevo fare, avevo bisogno di parlare con mio zio.
Nei giorni successivi, quella che sembrava già una decisione presa venne messa nuovamente in discussione da un esercito agguerrito di dubbi e patemi. Mi domandai infinite volte se ero pronto ad una scelta così definitiva, se fosse giusto per una persona giovane come me compiere un gesto così cruento e fatale. Restai sospeso nell’incertezza altri quattro mesi, un tempo che, a seconda del mio umore, mi parve un attimo o un’eternità.
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