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Il baco e la farfalla (capitolo 25)

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Messaggio Da Diego Repetto Lun 09 Set 2013, 10:52

Luglio 1967

Erano ormai tre anni che consumavo i pneumatici dell’Alfa su e giù per l’Italia, ma era la prima volta che ci spingevamo così a sud, fino al tacco dello stivale. Un politico locale aveva informato Lomellini che l’amministrazione comunale stava valutando la possibilità di ristrutturare integralmente il porto di Taranto. Marco non aveva perso tempo e si stava precipitando in zona come un rapace affamato, per artigliare l’affare prima di chiunque altro.
Dopo l’avvio dei lavori per la costruzione della diga sullo Minjiang e l’incarico ricevuto dal governo del Lesotho per realizzare una serie di sbarramenti per ottimizzare la gestione delle risorse idriche del paese, l’azienda di Lomellini era stata catapultata nella sfera che conta del business internazionale della costruzione. L’attività dell’impresa era in rapida espansione in America e in Asia. I piani futuri prevedevano che le filiali all’estero sarebbero sorte a un ritmo di una ogni sei mesi per i successivi cinque anni. La piccola ditta a conduzione famigliare si stava trasformando a passi spediti in una multinazionale del cemento. La rete aumentava le sue dimensioni senza però allargare le maglie, che restavano fitte e in grado di intrappolare ogni affare ritenuto interessante. Nonostante i successi a livello planetario, Lomellini non aveva infatti nessuna intenzione di trascurare l’ambito nazionale. Preda di un’ossessione bulimica, inseguiva, catturava e fagocitava senza tregua nuovi progetti, lasciando agli altri imprenditori poco più che le briciole. Il rifacimento del porto di Taranto rappresentava un pesce troppo invitante per lasciarselo sfuggire.
Stavamo attraversando una terra disabitata, lungo la strada erano completamente assenti i segni della presenza dell’uomo. La temperatura era torrida e si respirava a fatica. Dai finestrini abbassati entravano folate di aria calda. Rigagnoli di sudore mi colavano dalle tempie, attraversavano le guance, scivolavano lungo il collo e sfociavano poi sul petto e sulla schiena, dove venivano misteriosamente assorbiti da una camicia già fradicia. All’improvviso, in lontananza, vidi sorgere dal nulla una ciminiera che si fece via via più alta mano a mano che ci avvicinavamo. Intorno alla ciminiera, invisibili a prima vista, apparvero poi alcuni capannoni e un grande edificio bianco di tre piani. Dalla bocca del camino fuoriusciva una nuvola densa di fumo nero.
“E quello cos’è?” domandai.
“È un impianto industriale, uno di quelli che suscitano tante polemiche sui giornali e in parlamento. I detrattori, per la maggior parte appartenenti al PCI, li chiamano cattedrali nel deserto. Sostengono che mancano le infrastrutture nei dintorni e per questo motivo non creano indotto. Stabilimenti simili ne sono stati costruiti a decine in meridione negli ultimi anni. Personalmente credo che se si vuole far uscire il meridione dalla condizione di arretratezza in cui si trova rispetto alle regioni del Nord da qualcosa bisogna pur iniziare, e poco importa se prima si impianta la fabbrica e poi ci si costruiscono intorno le infrastrutture o viceversa”.
Il complesso industriale sfilò alla nostra destra e lo vidi sfumare nello specchietto retrovisore, risucchiato dal vuoto al suo intorno. La sua presenza rimase all’interno dell’Alfa sotto forma di un intenso odore di gomma bruciata. Provai a respirare con la bocca aperta, ma la gola, arida come le terre circostanti, si ribellò al flusso di aria calda e pungente. Deglutii la poca saliva che mi restava. Il miraggio di una pozzanghera sull’asfalto aumentò ancor di più la mia sete.
“Abbiamo ancora dell’acqua?”.
“No, è finita. Ma fra qualche chilometro svoltiamo in direzione di Candela. Già che siamo da queste parti, voglio fare un passo a dare un’occhiata a un nostro cantiere lì vicino. L’hanno aperto da poco e non ci sono ancora stato. Tra poco potrai dissetarti a piacimento”.
Sembrava che la sete fosse un problema solamente per me. Invidiai la resistenza di Marco. Soprattutto quando si trattava di lavoro, era capace di non bere e saltare i pasti per un’intera giornata.
Mezz’ora più tardi giungemmo al paese, una manciata di case arroccate su un cucuzzolo, strette in un abbraccio comune a un vecchio campanile di pietra.
“Accosta lì” disse Marco indicando un bar dall’altro lato della strada.
Gli avventori, una coppia seduta al bancone e quattro anziani che giocavano a carte, ci scrutarono sospettosi di sottecchi. Il barista invece, un cinquantenne con un paio di folti baffi neri che adornavano un viso rubicondo, ci venne incontro sorridente domandandoci in che cosa potesse servirci.
“Due birre, possibilmente fredde”.
Sparì per un attimo sotto il bancone e riapparve con in mano due Moretti. Le stappò e ce le porse, insieme a due bicchieri.
“Ecco le birre, appena uscite dal frigo. Desiderate altro? Qualcosa da mangiare?”.
“No grazie” rispose Marco per entrambi, senza consultarmi. In altre circostanze lo avrebbe fatto, ma aveva chiaramente fretta di arrivare a destinazione e non voleva perdere tempo sfamandosi in un bar con qualcosa che con ogni probabilità sarebbe stato di pessima qualità.
Scolai il bicchiere tutto d’un fiato, abbandonandomi al sapore amaro della birra che irrorava le pareti interne della mia cavità orale. Mi asciugai le labbra con il dorso della mano e feci schioccare la lingua sul palato con aria soddisfatta. Ringraziammo il padrone del bar, pagammo e ci avviammo verso l’uscita. Stavo per oltrepassare la porta quando Marco, che si trovava alle mie spalle, iniziò a parlarmi. Mi voltai, senza smettere di avanzare e piombai sul marciapiede senza guardare. Un urlo acuto frenò l’inerzia dei miei movimenti.
“Attentoooooo!”.
Troppo tardi, con il fianco scontrai un qualcosa di duro. Fissai la cassetta rovesciata e le albicocche sparpagliate per terra. Una ragazza osservava il disastro con aria sconsolata, le mani tra i capelli bruni. Un lamento fuoriuscì dalle sue labbra carnose color lampone.
“Mio padre mi ammazza”.
“Mi dispiace, davvero. Sono mortificato” mi scusai imbarazzato. Non sapendo cos’altro aggiungere, mi chinai a raccogliere i frutti dal marciapiede e incominciai a riporli nella cassetta, dopo averla rivoltata. Mi resi conto immediatamente che sarebbe stato un lavoro inutile. Una parte dei frutti era ammaccata o, ancor peggio, spappolata. Una succosa polpa arancione ricopriva le albicocche rimaste intere, rendendole di fatto indistinguibili dalle altre.
“A mio padre piacciono mature” disse la giovane, quasi a voler giustificare il fatto che non avessero retto all’urto. Nella sua voce c’era più sconforto che rabbia. “Sono più dolci. Provane una”. Ne scelse una rimasta intatta e me la offrì.
Rimasi abbagliato dal suo candore. Non mi aspettavo una reazione del genere e per un secondo fissai il frutto imbambolato. Poi allungai la mano e lo colsi dalla sua, sfiorandola. I miei occhi partirono bramosi alla caccia dei suoi, ma la ragazza era già intenta a riempire la cassetta.
Marco la fermò appoggiandole una mano sulla spalla. Aprì il portafoglio ed estrasse un paio di banconote.
“Tieni, questi sono per ricomprare le albicocche e per il disturbo”.
Con quei soldi avrebbe potuto acquistare una decina di casse. Ora era lei ad essere imbarazzata.
“Ma.......”.
“Niente ma” la interruppe Lomellini “è il minimo che possiamo fare. Non ti preoccupare, pensiamo noi a ripulire il marciapiede”.
La ragazza sorrise, infilò le banconote in una tasca del vestito e si allontanò a passo svelto.
“Aspetta” gridai “come ti chiami?”.
Esitò un istante, poi urlò:
“Sara” e sparì dietro un angolo.
Marco non era certo disposto a modificare i suoi piani per un imprevisto.
“Non perdiamo tempo, diamoci da fare. Chiedi al bar un secchio con dell’acqua”.
Allargai le braccia in segno di resa.
“Non solo hai fatto scappare quell’angelo piovuto dal cielo, ma ora ci tocca anche faticare” scherzai.

Ripartimmo poco dopo, diretti al cantiere. La strada disegnava un lungo serpente giù per il pendio, fino in fondo alla valle. Giunti di fronte all’ingresso, dissi a Marco che lo avrei aspettato lì. Avevo voglia di rimanere un po’ da solo. Abbassai le palpebre e ripensai all’incontro casuale di poco prima. Lasciai che i sensi si alternassero nel prendermi per mano e guidarmi nel ricordo. La voce squillante di Sara penetrò il timpano come una lancia acuminata. Ascoltai l’eco rimbalzare ritmicamente da un orecchio all’altro, un timbro acuto appena al di sotto della soglia del dolore, una leggera cantilena nell’intonazione, suadente. La chioma corvina che ricadeva sulle spalle scoperte si proiettò sulla retina, mescolandosi con i fiori rossi del vestito bianco e la macchia arancione sul marciapiede. E gli occhi? Di che colore erano gli occhi? Neri? Forse. Sfiorai con i polpastrelli il dorso scabro della mia mano, ripercorsi lentamente i segni ruvidi e indelebili del tempo. La sua pelle, invece, era vellutata. Mi era bastato lambirla un istante per rendermi conto di quanto fosse sottile e delicata. Inspirai profondamente e le narici si riempirono del profumo intenso della frutta matura. Premetti la lingua contro il palato, un sapore zuccherino si impossessò interamente della bocca. La dolcezza di quell’albicocca era inebriante. Poi, la vidi allontanarsi sulle gambe affusolate ondeggiando i fianchi. Girati, Sara, non mi ricordo di che colore sono i tuoi occhi. Un attimo solo.
Scesi dall’Alfa e strinsi gli occhi, violentati dalla luce. Quando lentamente li riaprii, si persero tra le ginestre che ornavano l’area intorno al cantiere. Una zona isolata, chissà cosa stavano costruendo. L’ennesima cattedrale?
Mi sedetti all’ombra di un ulivo solitario, in attesa del ritorno di Marco. Dopo una ventina di minuti lo vidi uscire dal cantiere e gli andai incontro.
“Possiamo proseguire per Taranto”.
“Che cosa state realizzando?”.
“Il centro di raccolta dei rifiuti della provincia di Foggia. Un’enorme discarica e un edificio in cui verranno sistemati un garage al livello della strada e degli uffici al primo piano”.
Non sapevo che l’azienda si occupasse anche di discariche, ma il fatto non mi sorprese più di tanto. L’eterogeneità dei progetti non era certo una novità e la specialità della casa, il cemento, veniva utilizzata per qualsiasi cosa. Qualsiasi cosa che portasse dei soldi nelle tasche di Lomellini, si intende.
Misi in moto e ripartii sgommando. Una nuvola di polvere si sollevò alle nostre spalle, nascondendo alla vista l’entrata del cantiere.

L’appuntamento con l’informatore di Marco era sulla terrazza di un piano-bar da cui si godeva un’ampia panoramica sul porto di Taranto. L’uomo era seduto a un tavolo, in compagnia di due bicchieri e una bottiglia di champagne immersa nel ghiaccio. Evidentemente non si aspettava l’arrivo di due persone. Dissimulò la sorpresa e fece aggiungere prontamente un terzo bicchiere. Nella gerarchia del partito non occupava ancora i posti più prestigiosi, ma possedeva la giusta dose di ambizione e le idee chiare per una rapida scalata ai vertici e una ricca e onorata carriera: come prima cosa, stabilì un prezzo per le informazioni in suo possesso. Lomellini increspò le labbra, l’atteggiamento arrogante del politico lo aveva chiaramente infastidito. Non perdendo di vista la ragione del viaggio, però, lo rassicurò che per il compenso non ci sarebbero stati problemi ed ottenne in cambio tutto ciò che desiderava sapere. Il tintinnio delle coppe di cristallo fatte scontrare al centro del tavolo sancì un accordo che soddisfaceva entrambe le parti in gioco.

Il lavoro di autista, soprattutto quando Marco si addormentava vinto dalla fatica, mi lasciava molto tempo per pensare, spesso troppo. Durante il viaggio di ritorno, l’immagine di Sara si impossessò con prepotenza dei miei pensieri. Il desiderio di rivederla sbocciò improvviso e inaspettato, senza nemmeno concedermi il tempo di coltivarlo. Più cresceva con il trascorrere dei chilometri, più lo vedevo allontanarsi florido e rigoglioso alle nostre spalle e mi rendevo conto dell’impossibilità di coglierlo. Non sapevo nulla di lei, chi fosse e cosa facesse nella vita, ma l’alone di mistero non faceva altro che alimentare il desiderio. Ignoravo perfino quanti anni avesse. Ne dimostrava sedici o diciassette, non di più. Era molto più giovane di me, almeno così mi era parso. Ribaltai il punto di vista. Era questa la stessa impressione che aveva avuto lei di me? Che fossi molto più grande, cioè, vecchio, di lei? Osservai i miei ventotto anni nello specchietto retrovisore. Quanti ne dimostravo? Pensai alle tappe cruciali della mia esistenza, separate le une dalle altre da un singolo colpo d’arma da fuoco. Il bambino, ammazzato a tradimento insieme a suo padre in una giornata di pioggia, all’età di dieci anni. Poi il ragazzo, deceduto in mezzo a un bosco con una pistola in mano, nove anni dopo. Sparare all’infanzia e all’adolescenza, un modo di crescere piuttosto originale. E doloroso. Infine l’uomo, concepito nella stanza fredda e umida di una prigione, nato dopo una gravidanza durata cinque lunghi anni. Tre vite differenti appartenenti alla stessa persona o forse, così li sentivo, spezzoni di una stessa vita vissuta da tre persone diverse. In fondo la terza ha solamente quattro anni e mezzo, mi dissi sorridendo, non è poi così vecchia.
Avevo bisogno di un pretesto. Un pretesto per tornare in quel paesino, per soddisfare il desiderio di rivedere quella ragazza. Marco russava profondamente, ignaro di ciò che la mia mente, a un metro scarso dalla sua, stava architettando. Non sapevo ancora che cosa gli avrei detto quando si fosse svegliato, nessuna buona idea stava prendendo forma. Più mi sforzavo, più le scuse per un possibile ritorno apparivano ridicole e inverosimili. E, pensandoci bene, anche la verità era assurda. Tornare per incontrare una ragazza alla quale avevo rovesciato una cassetta di albicocche. Non sarebbe certo stata contenta di rivedermi. Marco sarebbe scoppiato a ridere, mi avrebbe preso in giro, e a ragione. Col suo senso pratico, poi, avrebbe giudicato un eventuale ritorno come bizzarro e insensato.
Avevamo da poco oltrepassato il cartello che indicava la fine della Puglia quando Lomellini si destò con un grugnito. Si informò su dove fossimo e mi disse di fermarmi appena possibile che aveva bisogno di un caffè. Si era svegliato troppo presto, sorprendendomi nel bel mezzo delle mie elucubrazioni, senza che fossi giunto ad alcuna conclusione. In mancanza di una valida scusa, propesi per la sincerità.
“Vorrei tornare a Candela” dissi, senza scoprire subito tutte le carte in tavola.
“È per via della ragazza, vero?” sorrise Marco, che evidentemente mi conosceva meglio di quanto pensassi.
“Sì, mi piacerebbe rivederla, conoscerla”.
Marco rifletté, in silenzio. Non potevo crederci, non stava ridendo, anzi, sembrava che stesse valutando seriamente la situazione.
“Fino all’autunno ho bisogno di te. Quest’inverno mi opererò a un ginocchio, un intervento che secondo l’ortopedico non posso più rimandare. Per un po’ di tempo non viaggerò e durante la convalescenza lavorerò esclusivamente dal mio ufficio a Milano. A partire da novembre potresti fare un periodo di apprendistato nel cantiere vicino al paese, qualcosa da farti fare lo troveranno sicuramente. Quattro mesi, non di più, poi avrò nuovamente bisogno di te. Che ne pensi?”.
Se in quel momento la ragazza non sarebbe stata contenta di rivedermi, sei mesi dopo non si sarebbe nemmeno più ricordata di me, ma tutto sommato quello offertomi da Marco mi parve un buon compromesso, meglio di quanto avessi immaginato.
“Affare fatto”.

Diego Repetto
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