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Abisso fraterno

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Messaggio Da Il Sognatore Pazzo Ven 13 Set 2013, 19:59

Il buio mi circondava completamente. E non c’era niente di male in questo, anzi. Le tenebre erano la sola cosa che mi faceva sentire protetto.
L’unico spiraglio di luce si intravedeva una trentina di metri sopra la mia testa, un cerchietto luminoso che filtrava dall’imboccatura del pozzo nel quale ero precipitato, o meglio, eravamo precipitati.
Il sole si trovava ancora ad est. Presto sarebbe stato alto nel cielo ed i suoi raggi avrebbero illuminato l’intera cavità, fino a raggiungere me. Fino a raggiungere lui. Qualcosa che avrei preferito non essere costretto a vedere, a costo di dovermi strappare gli occhi dalle orbite.
E invece no. La luce reclamava la mia attenzione, ed io avevo il dovere di rispondere alla sua chiamata. Da sempre la luce ha avuto il compito di mettere a nudo i nostri peggiori demoni, il male più oscuro, recondito e spietato che si cela nei cuori degli uomini. Ed io avrei dovuto accettarlo. In fondo, era la giusta punizione per ciò che avevo fatto.
Mio fratello Heinrich era lì, proprio ad una spanna da me. Anche se, in un certo senso lui non era più con me; rimaneva solo il suo involucro, il suo corpo privo di vita; la vita che io stesso gli avevo portato via. Ma sapevo che in qualche modo continuava a fissarmi, dall’oscurità. Ed era un bene che non potessi vederlo. Anche da morto, ero sicuro che aveva parecchie cosette da dirmi.
Ci eravamo dati appuntamento quattro giorni prima vicino al vecchio mulino dei Mülhausen. Heinrich mi aveva telefonato dicendomi che mi doveva parlare di una questione delicata, e che ci saremmo dovuti vedere in un luogo appartato per affrontare l’argomento a quattr’occhi, da fratello a fratello.
Una volta sul posto, dopo un po’ di titubanza iniziale, mi aveva confessato di aver avuto una relazione con mia moglie. Sandra. Quella troia. Ecco perché evitava il mio sguardo più del solito negli ultimi tempi.
È risaputo che le mogli dei dottori – e degli uomini benestanti in generale – possiedono già tutto. Quindi, secondo quanto riportato da calcoli statistici, certe volte per combattere la noia vanno alla ricerca di nuove sensazioni e passatempi alternativi, che spesso coincidono con relazioni extraconiugali.
Sandra con molta probabilità sarebbe stata capace di portarsi il segreto nella tomba. E da lei me lo sarei anche potuto aspettare. Ma da Heinrich…
«Albert, ti prego, cerca di calmarti…» mi aveva detto, visibilmente intimorito dalla mia reazione isterica. «Lo so che ho sbagliato, altrimenti non starei qui a raccontartelo. È stato solo un momento di debolezza. Io…»
«Debolezza un corno! Si tratta di mia moglie, santo Dio! Che diavolo ti ha detto il cervello!?»
«Hai… hai perfettamente ragione» aveva continuato lui balbettando e tremando di paura. «Ti giuro che… è successo solo una volta e… e non ricapiterà mai più.»
«Oh, puoi star certo che non ricapiterà!»
Era stato a quel punto che io, accecato dalla rabbia e dall’odio verso colui che mi aveva tradito, il sangue del mio sangue, mi ero lanciato su di lui e, con il peso del mio corpo lo avevo sollevato da terra, ed avevo continuato a spingerlo e a spingerlo, senza fregarmene del pozzo alle sue spalle. Perché sapevo che c’era quel dannato pozzo, ma era come se in quel momento non facesse alcuna differenza.
Ciò significava che avevo intenzionalmente ucciso mio fratello? Molti avrebbero sostenuto di sì. Ma io non l’avrei messa in questi termini. Quando l’uomo è colto da un raptus di follia, è capace di commettere cose impensabili. Cose che mai e poi mai immaginerebbe di fare nella sua vita. È come se in quel momento si perde il controllo della propria mente e del proprio corpo, e si viene guidati da una mano invisibile.
Un demone? Forse. Perché quello di certo non ero io.
Ma insieme al male personificato anche il destino aveva deciso di fare la sua parte.
Saremmo potuti cadere in mezzo all’erba. Saremmo potuti finire contro un muro. Ed una volta lì avrei tempestato la sua faccia e il suo stomaco di pugni, fino a farlo sanguinare; fino a fargli perdere i sensi, forse. Ma non fino ad ucciderlo. No, non sarei arrivato a tanto.
Avrei sfogato una piccola parte della mia rabbia, e poi avremmo cercato di risanare quella ferita col tempo. Avremmo provato a riavvicinarci un po’ per volta, come buoni fratelli, anche se non saremmo mai più stati come prima. E per quanto riguardava mia moglie, avrei continuato ad ignorarla per il resto dei nostri giorni, perché non meritava più la mia attenzione.
Sì, era così che immaginavo il nostro futuro. Invece il destino aveva scelto diversamente, e ci aveva trascinati giù, nell’abisso. Lui, morto praticamente sul colpo, ed io, vivo, grazie al corpo di Heinrich, attraverso il quale mi ero fatto vigliaccamente scudo durante la caduta.
Speravo che almeno lui avesse potuto perdonarmi, che avesse potuto comprendere che si era trattata solo di una tragica fatalità…
Ma chi volevo prendere in giro. Era stato molto più di quello. Perché se non fosse stato per me, Heinrich sarebbe stato ancora vivo.
Avrei voluto almeno dirgli qualcosa, ma per tutto quel tempo non avevo aperto bocca. Non riuscivo a trovare il coraggio di parlare ad un morto. Il suo silenzio sembrava un monito nei miei confronti, sembrava quasi ordinarmi di rispettare quella religiosa quiete. Ed io sentivo la necessità di obbedirgli, poiché avevo violato già troppe cose.
Solo dopo essere precipitati gli avevo rivolto la parola, per sincerarmi delle sue condizioni. Poi, la totale assenza di una risposta e l’immobilità del suo corpo mi avevano fatto capire la realtà delle cose, gettandomi nella disperazione più totale.
Allora avevo reclinato il capo e, fissando quel cerchietto che ci aveva risucchiati, avevo gridato a squarciagola fino a sentire le mie corde vocali lacerarsi, nella speranza che qualcuno mi sentisse. Una speranza vana, poiché il vecchio mulino dei Mülhausen era stato abbandonato da anni; era lontano dalla strada principale e nessuno passava più da quelle parti. Speravo che almeno venissero a cercarci i nostri familiari, ma non avrebbero mai potuto immaginare che fossimo lì. Noi non avevamo mai avuto alcun tipo di legame con quel posto, a parte conoscere la sua posizione.
Dovevo solo rassegnarmi, o sperare in un miracolo.
Inutile dire che avevo provato ad uscirne in tutti i modi. Ma ogni mio tentativo si era rivelato inutile. Avevo provato a scalare la parete del pozzo puntellandomi nelle cavità tra i blocchi di pietra. Ma erano troppo scivolosi ed umidi e, puntualmente, dopo neanche aver fatto un metro mi ritrovavo di nuovo con le chiappe a mollo. Per fortuna l’acqua era profonda meno di mezzo metro, e almeno non c’era il rischio di annegare.
Avevo continuato così per il primo giorno, poi decisi di darci un taglio. Sapevo che non ce l’avrei mai fatta, e inoltre le forze cominciavano ad abbandonarmi. Ero stanco ed affamato.
Per lenire la mia sete ero costretto di tanto in tanto a sorseggiare l’acqua torbida del pozzo. Non era stata una soluzione felice; quella pozzanghera sporca doveva contenere ogni sorta di batterio nocivo. Alla base doveva esserci della semplice acqua piovana; il resto era fanghiglia, e Dio sa cos’altro, senza contare la contaminazione derivante dal corpo marcescente di Heinrich e dai rifiuti biologici di entrambi.
Ed infatti il mio organismo aveva fin da subito reagito in malo modo. Prima erano arrivati i crampi allo stomaco, poi i conati, e poi i rigetti di acqua mista a succhi gastrici, che si andavano a mescolare con quella già troppo alterata composizione.
Forse non sarei morto di sete, ma sarei morto di qualcos’altro, prima o poi. Ne ero pienamente consapevole, ma non m’importava. L’acqua è un bene prezioso, e preferivo bere il mio stesso vomito pur di non rimanere disidratato.
Per i primi due giorni, non avevo messo niente di solido sotto i denti. Poi la fame aveva preso a farsi sentire con una certa aggressività. Perciò mi ero cibato di qualche filo d’erba e del muschio che spuntavano dalle pareti. Il sapore orribile mi aveva provocato un ennesimo conato, ma mi ero costretto a tenermi tutto nello stomaco. Non potevo concedermi il lusso di rigettare tutto ciò che ingerivo, perché anche se non era per niente commestibile, era tutto ciò che avevo, e non ce n’era mica in abbondanza.
Non ne potevo più di stare là sotto. L’odore del corpo di Heinrich ormai nella prima fase di decomposizione mi penetrava le narici con la violenza di una fiamma ossidrica. E per finire, la mia pelle a contatto continuo con l’acqua per diversi giorni si era raggrinzita pericolosamente, ed ogni tanto la sentivo lacerarsi in diversi punti, specie sotto le piante dei piedi e sulle mani. Chissà quali tipi di malattie stavano prendendo forma dentro di me attraverso quelle lesioni. Nel migliore dei casi mi sarei beccato un’epatite.
Il bruciore stava diventando insopportabile. Cosa più che normale. Era il mio organismo che si attivava per combattere gli agenti patogeni esterni. In sostanza, una battaglia persa in partenza.
Ah, se avessi avuto con me almeno degli antibiotici, o degli antidolorifici…
Sapevo di essermelo meritato, ma se il destino voleva che raggiungessi mio fratello, avrei preferito una morte più rapida e meno agonizzante.
Mentre ragionavo su cosa mi avrebbe ucciso prima, il primo spicchio del sole di mezzogiorno fece la sua comparsa. La luce prese ad allungarsi verso il basso, come un serpente che cautamente striscia verso la sua preda. Cercai di abituare gradualmente gli occhi alla sua presenza, impresa che si rivelò titanica, dato il tempo scarso durante il quale venivo esposto quotidianamente alla luce diretta.
Ma il momento peggiore fu quando il sole si portò esattamente al centro di quel lungo ed oscuro cilindro – un cerchio sopra ad un cerchio – e sollevando l’ultimo velo di ombra, rivelò chi mi stava dinanzi. Non potei fare a meno di guardare mio fratello, e ciò che vidi mi fece accapponare la pelle, ancor più di quanto lo fosse già.
I suoi occhi erano sbarrati e strabuzzavano dalle orbite puntando dritti su di me. Era uno sguardo carico di follia. Ma non fu tanto quel particolare a terrorizzarmi, quanto piuttosto il fatto che gli avevo abbassato le palpebre non appena avevo realizzato che fosse morto, ovvero, esattamente tre giorni prima. Come avevano fatto a riaprirsi?
Un’altro particolare strano era la bocca, spalancata ma contratta fino all’inverosimile, il cui labbro superiore snudava i denti e le gengive esibendoli in un ghigno malefico.
Eppure il rigor mortis avrebbe dovuto essere cessato da tempo. Tutti i muscoli del corpo avrebbero dovuto rilassati per lasciare spazio alla decomposizione, che infatti era già chiaramente in corso.
Qualcosa a che fare con la temperatura? Con l’ambiente? Beh, lì sotto faceva un po’ freddino. Anche l’acqua era fredda, ma non talmente gelida da rallentare il rigor. Inoltre, se ci fosse stata una temperatura così bassa, io sarei già morto da un pezzo per ipotermia.
E allora qual era la spiegazione?
Riguarda noi. Soltanto noi due, disse una vocina interiore, che cercai invano di non ascoltare.
I raggi del sole sulla pelle di Heinrich gli conferivano una colorazione più intensa; più… viva. Cosa che rendeva ancora più raccapricciante il vederlo in quello stato. Ma era chiaro che vivo non fosse. Lo confermava anche la scia di materia grigia e pezzetti di cervello lasciati lungo la parete quando vi aveva cozzato con il cranio contro, sfondandoselo, durante la caduta. Sicuramente la principale e più immediata causa di morte.
Eppure quella sua espressione agghiacciante aveva qualcosa di maledettamente vivo. Era la perfetta immagine dell’ira primordiale, il puro e incontrollato desiderio di vendetta. Un’espressione che decisamente non si addiceva ad un cadavere, a meno che anche i cadaveri non potessero provare dei sentimenti.
«Cosa c’è?» Senza rendermene conto, o semplicemente perché stavo impazzendo, parlai al cadavere di mio fratello, per la prima volta da quando avevo constatato la sua morte. «Perché mi guardi in quel modo? Sei arrabbiato con me? Beh, anch’io lo sarei se fossi al tuo posto. Ma non dimenticarti anche di quello che TU hai fatto a me. Tutto sommato potremmo quasi dire di essere pari.»
Heinrich continuò a fissarmi in silenzio. Ovviamente. E cos’altro potevo aspettarmi?
Non sapevo perché lo stavo facendo. Forse era solo un modo per sfogare la paura che mi stava assalendo in quel frangente, visto che non potevo fuggire da nessuna parte, né fare alcunché.
Improvvisamente l’acqua ribollì sotto di noi. Durò pochi secondi, ma bastò a farmi salire il cuore in gola, accelerandone i battiti all’impazzata.
Calmati, Albert. Calmati e ragiona!
Era già successo. Il corpo nel decomporsi rilascia fluidi e gas in eccesso. Niente di cui allarmarsi. Accettai l’ipotesi, e riportai i battiti ad una soglia accettabile, evitando al mio cuore di scoppiare.
«Andiamo fratello. È così che mi annunci la tua presenza? So che vuoi dirmi qualcosa. Fallo adesso e finiamola qui. E possibilmente fallo con la bocca.»
«Ack!» fu il suono che produsse la sua mandibola quando scattò di un centimetro verso il basso, neanche mi avesse preso in parola. Che fosse realmente il tentativo disperato di un uomo morto di comunicare il dolore che stava ancora provando?
Cercai di prenderla come un’assurda coincidenza.
Suggestione. Era solo suggestione. Più che comprensibile per un uomo nella mia condizione. Ma io ero fondamentalmente un uomo di scienza; non credevo a quelle cialtronerie voodoo da piccolo villaggio di campagna. Cercavo sempre di trovare una soluzione razionale a tutto. E ciò grazie a Dio mi aveva permesso di mantenere i nervi saldi per… quanto? Novantasei ore? Era già passato così tanto? Beh, io di certo meritavo di entrare nel Guinnes World Record per il mio incredibile istinto di sopravvivenza.
Il sole era caldo e piacevole sulla mia pelle. Chiusi gli occhi e provai a godermi il sollievo di quei pochi istanti, dimenticandomi di tutto il resto. Poi, uno strano spostamento d’aria mi costrinse a riaprirli. Il busto di Heinrich si protese verso di me, dopodiché ricadde sul mio petto, la testa su una spalla, praticamente a contatto con la mia faccia.
Emisi un urlo di puro orrore con quel poco di fiato e di voce che mi rimanevano, e lo sentii percorrere tutto il cilindro del pozzo, riecheggiando tra le pareti fino all’uscita. Avrei voluto potermi librare anch’io così, come pura e semplice aria.
Come era potuto finirmi addosso, se il suo baricentro vergeva nettamente a favore della parete opposta? «Heinrich… adesso mi stai facendo paura…» sussurrai, la voce ridotta ad un filo sottile, quasi afona.
Come se non bastasse, il sole cominciava a ritirarsi, trascinandosi appresso i suoi raggi come lunghi strascichi luminosi. Lo guardai assottigliarsi progressivamente, mentre si dirigeva ad ovest, lasciando nuovamente il comando alle tenebre. Era una sorta di eclissi al contrario.
Afferrai la testa di mio fratello mentre eravamo ancora nella penombra. Dovevo assolutamente togliermelo di dosso. Sentii qualcosa di umido e molliccio sotto le mie dita. Era il suo cervello, o meglio, ciò che ne rimaneva.
Con uno sforzo immane lo riportai alla sua posizione originale. Ero esausto; le forze mi avevano completamente abbandonato. E per giunta, dal primo giorno non avevo ancora chiuso occhio. Troppi pensieri e troppe preoccupazioni per riuscire a dormire. Ma quattro giorni erano tanti, e chiunque a quel punto sarebbe crollato.
Le mie palpebre si appesantirono e senza nemmeno accorgermene scivolai in un sonno profondo. C’era il forte rischio che non mi sarei più risvegliato. Ma poco importava a quel punto. Nessuno mi avrebbe salvato.
Nessuno.

«Ehi, là sotto! C’è qualcuno?»
Aprii gli occhi a fatica. Una strana luce biancastra illuminava il pozzo. Non era la luce del giorno. Era la luna, piena e pallida come la morte. E insieme alla sua luce proiettava un’ombra; l’ombra di un uomo, in piedi in cima al baratro.
Quando si dice “mai perdere la speranza”…
Ma quante ore avevo dormito? Difficile dirlo. Anche il mio orologio biologico era andato in tilt.
«Ehilà! Qualcuno mi sente?» continuò l’uomo.
Dalla mia bocca fuoriuscì solo un flebile lamento. Dubitai che fosse stato udito. Allora radunai le ultime energie rimaste, e presi a schiaffeggiare la melma puzzolente nella quale ero immerso. Quello l’avrebbe sentito. Poi trovai la forza di aggiungere anche qualche parola alla sinfonia. «Sono qui… sono qui…» pronunciai debolmente, ma per me fu come gridarlo a pieni polmoni.
«Santo cielo! Sta bene?» Questa volta mi bastò non rispondere per fargli capire quanto fosse stupida la sua domanda. «D’accordo. Mi ascolti, le calerò giù una corda. Legherò l’altra estremità al mio pick-up e la tirerò su, ma lei deve fare tutto il possibile per non mollare la presa. Se la sente?
«Non ce la faccio. Sono troppo debole» riuscii a dire con un alito di voce in più.
«Allora provi a farsi un’imbracatura, se ci riesce. Io da quassù non posso fare altro. Ha capito?»
«Sì, va bene. Ci proverò.»
La speranza rinnovata di poter finalmente uscire da quel buco infernale mi aveva concesso la forza necessaria per rimettermi in piedi. Ma dovetti comunque appoggiarmi con la schiena al muro per non perdere l’equilibrio.
Afferrai la corda e pensai a come legarmela addosso. Realizzai che non ne sapevo niente di imbracature. Allora me la annodai semplicemente intorno alla vita. Sapevo che era una soluzione rischiosa, ma non mi andava di mettermi a studiare il manuale del “perfetto arrampicatore”. Avrei sopportato un altro po’ di dolore pur di tornare ad essere libero il prima possibile.
«Sono pronto!»
«D’accordo. Si tenga forte!» Altro consiglio insensato.
Sentii il rombo del motore del pick-up che veniva avviato, dopodiché cominciai finalmente a sollevarmi dalle putride acque. La corda si strinse terribilmente intorno al mio stomaco, fino a togliermi il respiro. Ma avrei resistito. Sì che lo avrei fatto.
Ero quasi a metà strada.
Ci siamo.
Mi aggrappai alla corda, onde evitare di scaricare tutto il peso sui fianchi e peggiorare così l’attuale situazione. I filamenti della corda mi procurarono notevoli tagli e abrasioni alle mani, ma io sentivo a malapena il dolore, e sotto la luce della luna le mani mi apparivano più scure del solito. Non era per niente un buon segno. Le probabilità di riuscire a recuperarle erano davvero scarse.
Finalmente ero fuori. Mi liberai di quella dannata corda che quasi stava per uccidermi, e respirai a grandi boccate l’aria fresca e pulita. Quanto mi era mancata. Ci rendiamo conto di quanto siano importanti le cose normalmente per noi insignificanti solo quando ne veniamo privati.
Improvvisamente mi ricordai di non aver nemmeno degnato di uno sguardo il povero Heinrich, dal momento in cui mi ero svegliato fino a quando ero risalito. Avrei dovuto porgergli l’estremo saluto, ma preso dalla foga della mia imminente liberazione me n’ero completamente dimenticato.
Con un ultimo sforzo mi sollevai in piedi. Il mio salvatore era lì, davanti a me. Non riuscivo a vederlo perché era in ombra. Aspettai che dicesse qualcosa mentre riprendevo fiato, ma non proferì parola. Allora lo feci io. «Chi… chi devo ringraziare?»
«Che c’è, dottore» disse, incamminandosi lentamente verso di me. La sua voce era stranamente familiare. «Non riconosci nemmeno più tuo fratello?»
«Cosa?» Riuscii a concretizzare quello che le mie orecchie avevano appena udito solo dopo che l’uomo fu riemerso dall’oscurità, e la luce della luna illuminò il suo volto.
Era davvero mio fratello Heinrich. Cadaverico e sogghignante, ma più vivo che mai. Il suo sguardo era carico d’odio. Metteva i brividi.
«Ma… com’è possibile?»
«Vedi, Albert, l’amore fraterno è un legame che va ben al di là della vita e della morte.»
«Cosa vuoi dire con questo? Io… io non capisco.»
«Oh, ma lo capirai. Lo capirai molto presto. Devi solo avere… fede.»
Prima che potessi aggiungere qualcos’altro, le mani esangui di mio fratello mi afferrarono per la camicia, e mi spinsero indietro. Barcollai per qualche passo, poi trovai soltanto il vuoto. Quel vuoto che ormai conoscevo così bene.
«Adesso sì che siamo pari, Albert!» ridacchiò Heinrich da lassù, guardandomi cadere con un’espressione compiaciuta, quasi di godimento.
Tornai nell’abisso dal quale ero venuto. Tornai a fare compagnia all’uomo che avevo ucciso.
Questa volta per sempre.
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