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Rosso brillante

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Messaggio Da Sall Mer 20 Ott 2010, 19:08

Rosso Brillante



L'asfalto divenne buio e lo scenario perse ogni forma; un istante dopo, tutto tornò al proprio posto illuminato da una luce verde brillante e così spinsi il piede sull'acceleratore e sfrecciai via, lungo il Gran Viale della Battaglia. Era notte e la radio trasmetteva rumori polverosi e indefiniti.
Alzai il volume, il mal di testa latente e cronico divenne acuto, una massa pulsante spingeva sulle pareti del mio cranio. Alzai ancora il volume, i rumori divennero più rotondi, entravano direttamente nel mio cervello, il dolore aumentava, percorsi qualche centinaio di metri ad occhi chiusi, poi decisi di fermarmi e accostai.
Scesi dall'auto, avevo bisogno di camminare, di respirare, di estraniarmi dal rumore delle sirene della città. Mi infilai nella prima laterale, una piccola strada stretta e buia. Dopo pochi passi mi resi conto di essere entrato in un vicolo cieco. Scorsi un uomo sdraiato a terra, nascosto nell'ombra dell'imponente muro di cemento armato che chiudeva la strada. Gemeva, tenendosi il ginocchio.
“Aiutami ti prego! Aiuto!”
La mano che teneva la gamba piegata era sporca di sangue ormai rappreso, guardando meglio mi accorsi che tutto il braccio era macchiato e l'uomo era scarnificato in diversi punti del corpo.
“Sei ridotto male, amico, che ti hanno fatto?” chiesi.
“Degli stronzi sconosciuti! Aiutami! Ti prego!”
Il dolore persistente al cervello cominciò a svanire e mi avvicinai all'uomo. Raccolsi un rametto sottile da terra e gli puntai una ferita aperta, premendo il bastoncino all'interno, che si ruppe a metà. Lasciai scivolare a terra il rametto; l'altra estremità rimase conficcata nella carne viva, ancor più umida e spurgante, per poi, debolmente, cadere anch'essa. L'uomo urlava di dolore altalenando da una parte all'altra. Era sprovvisto della mano sinistra e la destra era atrofizzata a tenere la gamba.
“Sei indifeso amico, potrei far di te ciò che più mi piace...”
“Maledetto! Lasciami stare!” e subito dopo cominciò a piangere sbavando sull'asfalto.
“Smettila di frignare. Perché ti hanno ridotto così?” chiesi.
L'uomo continuò a piagnucolare per un po' e poi, singhiozzando, disse che non lo sapeva ma raccontò qualcosa ugualmente. Stava percorrendo il Gran Viale a piedi quando un signore lo fermò e gli chiese un'informazione, forse l'ora. Prima ancora che potesse rispondere, l'uomo lo spinse contro uno degli edifici che costeggiavano il viale. Poi arrivò un secondo uomo e assieme lo trascinarono nel vicolo cieco. Il primo lo teneva a terra bloccato e il secondo, con un paio di forbici, gli tagliò prima i vestiti e poi dei pezzi di carne, insistendo sul ginocchio. A questo punto smise di raccontare per ricominciare a piangere a dirotto; io non avevo capito nulla.
“Ma le abitazioni qua intorno? Nessuno ha sentito?” chiesi perplesso.
“Sono disabitate”
“Disabitate...”
Il suo corpo tremava, emanava un puzzo acre di sangue e alito pregno di bile.
“E la mano? Che fine ha fatto la tua mano?” chiesi. Alzò il moncherino senza proferire parola e guardò la cicatrice ancora fresca, i punti erano per metà staccati lasciando una parte della ferita aperta. A terra, di fianco all'uomo, notai delle fasciature raggomitolate e sporche. Un metro più in là un foglio, piegato in due, si apriva e si chiudeva assecondando le brevi folate di vento. Mi chinai e vidi il timbro rotondo e blu scuro dell'ospedale.
Ricordai una notizia letta pochi giorni prima nel quotidiano locale. Un uomo correva con la sua decappottabile nel Gran Viale. Era notte o forse era soltanto nuvoloso, tremendamente nuvoloso. Un bambino attraversava di corsa proprio quella strada, in quell'istante: i suoi capelli riflettevano una luce rossa brillante. Il fischio prolungato delle gomme sull'asfalto. Il cranio si ruppe lasciando fuoriuscire un liquido amaranto che aggiunse un'altra sfumatura più scura ai quei capelli un tempo biondi con riflessi color dell'oro. L'uomo, nel tentativo fallito di evitare il bambino, sbandò e l'auto si rovesciò capitombolando per diversi metri. Perse proprio una mano, tranciata dalle lamiere del veicolo. Venne ricoverato nel pronto soccorso della zona, il bambino portato via a sirene spente. Tutte queste informazioni arrivarono di getto, come una confessione; i miei pensieri assunsero una dimensione ansiosa e giudicatrice. Mi sentii illuminato, il detentore della verità.
“Hai ucciso un bambino.”
“No! Non è stata colpa mia!” esclamò tremando sempre più forte.
“Hai ucciso un bambino.”
“Non volevo!” rispose in lacrime, sbavando.
I suoi occhi brillavano di pura sincerità. Mi avvicinai e appoggiai la suola della mia scarpa destra sul suo volto. Cercò di dire qualcosa. Non se l'aspettava e iniziò a strillare. Cominciai a calciare; la sua testa batteva sull'asfalto e, colpo dopo colpo, le sue grida divenivano più stridule e rade.
“Disabitate...” dissi.
L'uomo, ormai deforme, respirava ancora. Mi guardò con i suoi occhi piccoli e lucidi.
“Cos'hai da guardare?” gli chiesi. Non rispose. Non era in grado di pronunciare un suono definito. Annoiato mi allontanai verso l'auto. Accesi la radio e il cervello ricominciò a pulsare. L'uomo a terra sarebbe morto di lì a poco. Mi facevo schifo e mi faceva schifo lui; mi facevano schifo i due uomini; mi faceva schifo la puzza e il rumore di quella città, tutto faceva schifo, tranne la luce rossa e brillante del semaforo che dava forma alle figure, e ne delineava i contorni. Quella luce brillante e rossa. Solo quando la raggiunsi un impatto violento mi costrinse a frenare e girare. Venni sbalzato fuori dall'auto, e caddi in fondo ad un vicolo cieco, sanguinante e morente.

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